L’abitudine è tutto ciò che non abbiamo mai pensato

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L’abitudine è tutto ciò che non abbiamo mai pensato

Molte funzioni sociali sono svolte da persone che dimenticano qualunque vero motivo per cui le svolgono.

Succede che un giovane inizi a lavorare, perché ha bisogno di un reddito, ma presto egli entra in un meccanismo di cui non riconosce più alcun significato reale, se non quel reddito che il lavoro gli permette di avere, a fine mese.

La vita diventa soltanto l’attesa della fine di ogni mese, ma perde qualunque motivazione che giustifichi persino i sacrifici che il lavoro stesso inevitabilmente comporta.

E’ questa una storia di cui non si vuole parlare, spesso si tace, ma molte volte, nelle pieghe relazionali che la vita offre, come piste per lanciarsi dentro di sé, una persona racconta, quasi automaticamente, senza rendersene conto, tutto quello che, nella facciata di tutti i giorni, non avrebbe mai il coraggio di raccontare.

Escono dai meandri della coscienza le storie e le percezioni più nascoste, gli orrori dello spirito, annichilito dalla vita sociale che obbliga alla costrizione di abiti che non corrispondono alle reali esigenze di quei bambini, che ora timbrano un cartellino all’ingresso del lavoro.

Ho spesso l’occasione di ascoltare storie segrete di persone, che raccontano la propria più profonda insoddisfazione, parlando del momento in cui hanno avuto l’impiego con cui hanno potuto mandare avanti la propria famiglia.

Quindi, una famiglia che si nutre di ciò che la coscienza non vuole. Una coscienza che opera contro le regole che danneggerebbero qualunque membro della famiglia, se mai accadesse di dover sottostare all’obiettivo conseguito, che quel lavoro rappresenta.

L’essere umano resta incastrato in ruoli che sanno di cannibalismo, della distruzione dei diritti del prossimo, dietro le mentite spoglie di attività che non possono essere messe in discussione. E invece no!

Esistono molti uffici, carriere, operazioni, che si basano su regole che non hanno nessuna utilità sociale e servono soltanto a fracassare il diritto naturale delle persone.

Queste righe non fanno riferimento a nessun lavoro in modo esplicito, ma hanno solo lo scopo di fare riflettere tutti sul senso della propria vita e del ruolo che si è scelto di non contrastare.

Il ruolo che corrisponde a quella parte della coscienza che si è murata viva, che non si vuole vedere ed ascoltare mai più, perché complicherebbe l’esercizio di quelle che si chiamano spesso “mansioni”.

Come si fa a capire se è giusto fare il proprio lavoro? Semplice! Si immagina di esserne la vittima, o il beneficiario,  quindi si procede con coraggio ad immaginare un altro modo di assicurare l’ordine.

Molte volte, l’ordine corrisponde ad un vero e proprio disordine, nel senso che si alimentano stili che servono solo a creare dolore e ingiustizia. Gli uomini sanno fare molto bene quello che disdegnano,  sanno spegnere le speranze che erano più importanti, sanno dimenticare, sanno tacere, sanno perdere i ricordi, sanno leggere senza leggere, sanno fare silenzio parlando e parlare quando vorrebbero tacere.

Lo sguardo è ben diverso dagli occhi che guardano nella luce degli occhi dell’altra persona, che ti guarda e si aspetta che tu la guardi senza tradirla.

Quanti lavori conoscete che hanno la forza di rendere deboli?

Quanti lavori vorreste che sparissero?

Quanti lavori  non verrebbero eseguiti, se non producessero reddito?

Un lavoro è quello giusto quando lo si farebbe senza compenso.

Forse esiste un motivo per cui la società è costretta a recitare la farsa dell’utilità di molti lavori che servono perché non possiamo fare niente senza denaro.

Questa è una strada che conduce al capovolgimento del senso della vita, così come la intendiamo.

Eppure, basterebbe immaginare solo il momento della nascita di un individuo per poter sognare il mistero possibile della sua esistenza. Nessuno viene al mondo per soffrire in una lista di incombenze assurde, che schiacciano la persona e tolgono il respiro.

La cosa più grave è che si organizzino dei sistemi assurdi che dovrebbero servire a garantire l’armonia, ma, presto, una persona sana di mente si accorge che non si va da nessuna parte, se si continua a rimanere troppo abituati alle regole di una vita “normale”.

L’evoluzione possibile della coscienza di molti individui è sempre più pronta ad essere la coscienza  collettiva per una revisione profonda della vita sociale. L’utopia.

Si ha paura di ribadire l’ovvietà di un modo di vivere alternativo, quasi si teme di parlare del senso che intuiamo essere giusto, da dare alle cose e alle situazioni.

L’abitudine premia chi si accontenta e scoraggia chiunque voglia proporre la verità che si conserva soltanto nel cuore, nel sogno, nell’immaginazione.

Esiste un mondo, dentro lo sguardo delle persone che guidano, mentre si recano sul posto di lavoro, mentre attendono che il loro corpo si incarni nella situazione che il sistema prevede come retribuibile.  Questo mondo è diverso da quello che vivranno, quando faranno il proprio dovere.

Gli stili delle cose diventano le cose, quando il respiro si continua nell’aria che ci entra dentro.

Non posso vedere quello che vedo, non posso sentire quello che sento, non posso essere quello che sono, non posso pensare quello che penso, posso soltanto credere che tutto quello che si ribella dentro di me abbia un mondo dove può liberamente essere e svilupparsi nell’armonia più profonda per tutti.

Quanto coraggio occorre? Quanto ne serve per non averne!

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