Nonviolenza e medicina omeopatica
Sono figlio di un medico, ho quasi quarantatre anni e sono medico dall’età di ventiquattro anni.
Immagino numerosissime evoluzioni possibili della mia vita di medico, ma, se mi fermo a guardare quella che effettivamente è stata la mia evoluzione fino a questo momento, mi rendo conto che ho inseguito soltanto l’anima della medicina e di tutto ciò che abitualmente riteniamo il “prendersi cura di chi non sta bene”.
Mi è stato chiesto dal caro Matteo Della Torre di parlare di medicina omeopatica nella sua creatura nonviolenta “Il grido dei poveri” e l’invito mi è molto grato anche perché ricordo che Mahatma Gandhi così si esprime a proposito dell’omeopatia:”L’omeopatia è il metodo terapeutico più avanzato e più raffinato che consente di trattare il paziente in modo economico e non violento”.
E’ bellissimo avere la prova che Gandhi si sia interessato all’omeopatia e ne abbia fornito una definizione così importante quanto stimolante.
Per parlare di medicina omeopatica forse è bene prima parlare di medicina allopatica.
L’allopatia è la medicina consolidata nel nostro sistema sanitario e consta di una struttura di base che attinge tutti i suoi elementi da discipline scientifiche quali la biologia, la chimica e la fisica.
Lo studente in medicina e chirurgia viene preparato con una serie di insegnamenti propedeutici ad entrare secondariamente in quelli che sono definiti gli insegnamenti clinici nei quali le conoscenze di base sono applicate alla gestione della diagnosi e della terapia delle patologie.
Biologia, chimica, fisica, istologia, biochimica, microbiologia, immunologia, genetica, statistica, anatomia umana normale, fisiologia, patologia generale, patologia medica, patologia chirurgica, psicologia medica, anatomia patologica, farmacologia, clinica ortopedica, clinica odontostomatologica, radiologia e diagnostica per immagini, clinica dermosifilopatica, clinica oculistica, clinica otorinolaringoiatrica, psichiatria, clinica ostetrica e ginecologica, clinica medica, clinica chirurgica, medicina legale e delle assicurazioni.
Un corpus di esami da preparare e da sostenere attraverso cui il ragazzo che si iscrive ad un corso di laurea di trasforma in un Dottore in Medicina e Chirurgia.
Vorrei parlare delle sensazioni che provo in questi ultimi anni, quando mi aggiro nei padiglioni del Policlinico, ricordando l’epoca in cui correvo da un aula all’altra, da un reparto ad un istituto…e crescevo avvicinandomi sempre più all’agognato momento: la laurea. Questa venne presto e brillante, poi la gavetta, la prima specializzazione, poi la seconda, il lavoro, l’esperienza che cresceva attraverso gli anni.
Eppure avvertivo la mancanza di qualcosa che desse un’anima a ciò che facevo.
Le visite si svolgevano attraverso un protocollo rigido cui il racconto del paziente doveva piegarsi per soddisfare soprattutto il mio bisogno di compilare un documento che avesse un valore scientifico, procedurale e medicolegale accreditato dal sistema.
Ricordo una certa ansia che animava le mia visite ed era dovuta al timore di non ossequiare tutte le tappe del protocollo, per non parlare poi del continuo lavoro di ripetizione ed aggiornamento sulle procedure d’indagine strumentali e di laboratorio.
In alcuni momenti diventava davvero importante ricorrere alla richiesta di indagini molto particolari per non rimanere “fuori” dell’evoluzione storica contestuale della medicina e per provare anche a se stessi e agli altri di essere all’altezza della situazione.
Tutto ok, ma avevo sempre di più la sensazione che la persona cui dedicavo la mia attenzione, la sua reale profonda inenarrabile verità rimanesse nascosta, irraggiungibile dalle mie domande e dalle mie indagini.
Eppure negli anni sentivo che proprio questa porzione della storia che non appariva mai in una cartella clinica o nelle mie schede di visita era la più importante, quella che aveva determinato il disagio, la malattia.
Sapevo, non mi si chieda perché, che non bastavano le più fini indagini per aiutare a capire che cosa caratterizzava la malattia di una persona e neppure per approntare la terapia più efficace.
La mia esperienza lavorativa andava avanti con successo ed il riscontro dei pazienti era notevole, ma io ripetevo sempre più spesso di non essere soddisfatto del modo in cui lavoravo ed ero convinto che avrei dovuto imparare a lavorare in un modo diverso.
Durante un congresso di immunologia, ero continuamente raggiunto dall’idea che sarebbe stato possibile accedere alla biologia profonda delle persone facendole parlare e poi fermandosi ancora a parlare con loro.
Mi rendevo conto che le procedure d’indagine e gli studi erano divenuti così sottili e capillari che non era possibile parlare più di un sistema biologico integrato, ma soltanto di tante piccole parti ormai scollegate tra di esse.
Da una vita avevo inseguito il sogno di un approccio integrato, globale, alla persona, attraverso la laurea in medicina, l’approfondimento dell’anatomia patologica, della psichiatria, la specializzazione in allergologia ed immunologia clinica, quella in medicina interna, ma non riuscivo ancora a capire in che modo avrei davvero potuto realizzare il sogno di riuscire a prendermi cura delle persone nel modo più vicino alle stesse e non ai miei schemi prefissati.
Gli studi sono una bella cosa finché non ti accorgi che ti hanno fatto perdere del tempo e ti hanno distratto da qualcos’altro che in fondo era il fine principale degli stessi studi.
Scrivendo, mi rendo conto che attraverso la mia storia personale, racconto in fondo la storia dell’evoluzione dell’uomo, del suo sapere e delle sue possibilità operative.
Il dott. Hahnemann (1755-1843) scoprì il metodo omeopatico, entrando in crisi, dopo aver letto che proprio gli addetti alla lavorazione della china, usata per la cura della malaria, facevano febbri identiche a quella malarica. Partì così una strada infinita di dubbi e di controlli alla qualità del proprio sapere che resero Hahnemann un uomo al centro dei più profondi tormenti scientifici, etici e storici che la storia dell’umanità possa rammentare.
Non sto qui a ripetere tutto ciò che può leggersi sui mille libri di omeopatia al mondo. Vorrei piuttosto, qualora davvero io possa riuscirci, raccontare che cosa significa dedicarsi alla medicina omeopatica dopo aver studiato e praticato la medicina per molto tempo secondo i canoni classici e comunemente riconosciuti.
Hahnemann si accorse che le sostanze possedevano un’azione limitata sui sistemi biologici. I meccanismi d’azione vantati dalla scienza ufficiale e riconosciuti efficaci per il trattamento dei sintomi di malattia, pur essendo reali, riguardano soltanto una fetta dell’intero meccanismo che determina la vita, la salute e la malattia.
La grande scoperta dell’omeopatia consiste nell’individuazione della reattività della persona di fronte a stimoli che non parrebbero diversamente utili a promuovere la guarigione. Insomma quando si dice omeopatia si sta parlando della storia più antica del mondo, quella della vita che reagisce ad una difficoltà e che muove un miglioramento partendo da una situazione di apparente svantaggio.
Il farmaco ed il rimedio appartengono a due modi completamente differenti di considerare la vita.
Il farmaco nasce dall’utilizzo di azioni opinabili su meccanismi biologici staccati dall’essenza profonda della vita. Il rimedio opera nel vivente riproponendo la stessa azione manifestata dalla vita dopo uno stimolo specifico di natura finissima.
E’ vero che la realizzazione del rimedio richiede abilissimi e precisi artifizi, ma è anche vero che il procedimento omeopatico parte dall’osservazione delle dinamiche naturali e non da ipotesi di laboratorio.
Che cosa è un farmaco? E’ una sostanza che svolge un’azione definita su porzioni limitate del sistema biologico e che essenzialmente modula una funzione deprimendola oppure eccitandola. Molto spesso l’azione delle molecole in questione è preceduta dal prefisso “anti” con riferimento al potere di deprimere una modalità fisiopatologica. Ad esempio sono utilizzati anti-infiammatori, anti-depressivi, anti-istaminici, anti-ipertensivi, anti-dislipidemici, anti-piretici, inibitori di vari sistemi biologici.
Questo modo di agire si basa sulla presunzione che l’organismo stia sbagliando qualcosa e che il medico possa correggere una risposta biologica dopo averla riconosciuta come patologica. Il problema è che, in una profonda revisione della medicina, cosa possibile e sempre più spesso realizzata in vari ambienti e con varie modalità, appare che ogni risposta realizzata dal sistema biologico è sempre la migliore risposta possibile.
Ad esempio pretendere di normalizzare dei valori pressori elevati in un soggetto anziano con stenosi (restringimento) dei vasi arteriosi del collo significa rischiare di condannare ad un’evoluzione ischemica (infartuale) il paziente, sabotando una risposta che la natura ha approntato proprio per superare l’ostacolo che il sangue incontra a perfondere il cervello.
Somministrare un antidepressivo alla persona che sta realizzando un modello di comportamento probabilmente utile per la conservazione della vita ed il superamento di condizioni limitanti la sua evoluzione significa coartarne le modalità espressive, creare cortocircuiti che alla fine comprometteranno più profondamente il futuro dell’individuo.
Non è facile riconoscere rapidamente il senso di ciò che sto cercando di spiegare. Vediamo di fare un esempio.
Se un giovane si è incamminato in una relazione sentimentale con una persona che blocca la sua evoluzione e gli crea seri problemi nell’esistenza quotidiana, è normale che si sviluppi una risposta depressiva nel momento in cui, sotto la pressione di remore legate a condizionamenti magari moralistici, egli “scelga” di dedicare la propria vita a quest’amore.
Piuttosto qualcuno dovrebbe spiegare al ragazzo che un rapporto d’amore dovrebbe essere facile e naturale e che il fidanzamento, per quanto lungo, resta un momento di prova per vedere se la coppia ha futuro.
Perciò l’unico sistema per aiutare questa persona è quello di raccontargli questa verità e di capire se il disagio che vive nella relazione è frutto di un comportamento obiettivamente incongruo del partner oppure di una sua alterata percezione. In quest’ultimo caso bisognerà lavorare su questa e dunque un antidepressivo sarà quanto di meno indicato.
Il rimedio è una versione modificata della sostanza sottoposta a diluizione ed agitazione, provata su sperimentatori sani che hanno consentito con la loro risposta individuale di capire l’azione profonda di uno stimolo di natura omeopatica. L’azione di un rimedio è sempre molto complessa e precisa, riconoscibile attraverso molte caratteristiche che si esprimono sui vari piani della persona e che hanno sempre delle connotazioni squisitamente psichiche che suggeriscono l’uso elettivo di un rimedio al posto di un altro.
Ecco perché dico che la medicina omeopatica restituisce l’anima alla medicina classica: non solo il metodo è più preciso e più vicino alla natura della persona, ma i mezzi che in fin dei conti sono utilizzati risultano più efficaci perché, oltre a correggere sintomi per così dire periferici, modulano soprattutto l’atmosfera profonda sulla cui base i sintomi traggono origine.
Un rimedio omeopatico può agire sulle alterate percezioni di una persona come nessun farmaco potrebbe mai fare, ma soprattutto i sintomi fisici che la persona lamenta non sono comprensibili e curabili al di fuori del contesto globale che lo rappresenta e di cui l’alterata percezione è la parte più importante.
L’asse della diagnosi operata dal medico si sposta di netto verso un modo di accostarsi al mistero dell’evoluzione di un paziente e di scoprirne le caratteristiche che condizionano la qualità della vita e la libera espressione delle modalità dell’essere.
E’ ovvio che la terapia omeopatica smuove le concrezioni che annichiliscono la persona e creano il miglior terreno possibile perché si riduca il divario fra le sue potenzialità e l’effettiva realizzazione nella vita.
Potrebbe sembrare strano tutto ciò che via via cerco di raccontare, ma è tutto frutto del monitoraggio negli anni di migliaia di persone e già soltanto questo dato dovrebbe essere sufficiente a garantire che la medicina omeopatica è uno dei migliori sistemi per aumentare la consapevolezza delle persone.
Che cosa accade nelle persone che si curano con il metodo omeopatico?
Vorrei dire prima di tutto che una persona che si rivolge dal medico omeopata ha probabilmente dei movimenti in atto all’interno della propria vita ed io penso che abbia intuito che i problemi non si limitano alle apparenze ma hanno un’anima.
La curiosità è un elemento fondamentale della persona intelligente e prelude alla scoperta di nuove strade.
Il nostro sistema propone ed alimenta comportamenti conformati rispetto alla sofferenza e alle modalità per ottenere il benessere. Non vi è bisogno di un medico omeopata per capire che gli slogan pubblicitari di farmaci in televisione, per strada, in farmacia, sono espressione di quanta demenzialità possa soddisfare l’utenza comune. Si tratta di giri di parole privi di qualunque fondamento e soprattutto ingannevoli non solo per la forma ma ovviamente per la sostanza che presiede all’espressione atta ad innescare nel pubblico dei bisogni che col tempo allontanano sempre più dal senso della realtà.
Così c’è chi si convince di non poter vivere senza decongestionante nasale, chi non viaggia senza lassativo, chi ormai da anni non si mette a letto senza prendere le gocce e chi pensa che forse suo figlio resta vivo solo perché ogni volta che ha la febbre e la tosse vi è un pediatra lo rimpinza di prodotti farmaceutici.
Col tempo le persone che si curano con la medicina omeopatica sperimentano sulla propria pelle, ma soprattutto sulla percezione profonda della propria vita la sensazione sempre più marcata che la vita è un fatto spontaneo ed autonomo e che tutta la pressione della farmindustria è soltanto una malefica trappola.
Si può riempire uno stadio di persone pronte a testimoniare in tal senso.
La consapevolezza e la sicurezza delle persone cresce e poi in pari misura cresce la capacità di filtrare in modo intelligente le mille pressioni e la disinformazione che puntualmente sotto le mentite spoglie di informazione si affaccia alle nostre coscienze.
Il livello di salute dei convinti dell’omeopatia aumenta dall’inizio della terapia e si consolida su quote che restano alte nel tempo. Un mal di testa va via spesso da solo e rapidamente, magari attuando un comportamento diverso o con la semplice presa di un rimedio. In ogni caso il vissuto di malattia che caratterizzava i sintomi prima di intraprendere l’omeopatia si attenua col tempo lasciando spazio ad un ottimismo che smonta anche il più iettatore dei solerti medici filofarmaceutici.
La visione della vita cambia e le relazioni di queste persone diventano più sane. La creatività aumenta e si riprendono gli hobbies, ogni segno di un incremento di vitalità non tarda a manifestarsi con gradualità e con indubbia importanza sull’armonia della vita.
Mi accorgo che l’esperienza di coloro che hanno deciso di curarsi omeopaticamente non è sempre all’unisono con quanto ho il coraggio di sostenere. I motivi sono diversi, ma il principale consiste nella molteplicità di modi di fare omeopatia esistenti sul mercato.
E’ necessario chiedersi quali tipi di omeopatia offre il mercato.
La causa della diffidenza che molti medici, ma anche persone comuni, provano nei confronti della medicina omeopatica dipende, in buona parte, dagli stessi medici omeopatici. L’affermazione è provocatoria e presta il fianco anche alle critiche dei tanti detrattori di questo tipo di medicina – critiche, peraltro, spesso dettate dalla malafede o da una non conoscenza approfondita della materia. È necessario, però, mettere sul tappeto tutti i problemi e sciogliere tutti i nodi per ritrovare il filo che ci porta all’essenza della medicina omeopatica.
Per cui va detto che ci sono molti medici che si definiscono omeopati ma che, in realtà, non applicano in nessun modo il metodo di fondo della medicina omeopatica. Studiano, ad esempio, solo l’uso dei rimedi omeopatici, senza inserire l’incontro con il malato, la diagnosi e la cura in un contesto giusto per poter arrivare a capire ciò di cui il paziente ha veramente bisogno.
O, ancora, accondiscendono ad esigenze che niente o poco hanno a che vedere con il metodo omeopatico. Queste esigenze sono la fretta, quella del paziente di far scendere una febbre, quella del medico di tornare alla sua tranquillità, la pochezza, quella del paziente che si accontenta di combattere la sua cefalea mille volte l’anno con mille prese di un prodotto qualsiasi, quella delle case farmaceutiche che continuano a proporre farmaci oppure rimedi complessi di tipo omotossicologico mirati esclusivamente ai sintomi.
E c’è anche la venalità, quella del medico cui basta tirare avanti magari anche con molti dubbi in cantina e quella dei gruppi industriali che, pur di alimentare mercato, spesso e volentieri influenzano negativamente una eventuale evoluzione similomeopatica, (che va cioè verso un esercizio della medicina omeopatica non fedele ai principi reali dell’omeopatia). Per ovviare a problemi di tal tipo, influenzati da una sorta di buon senso per niente rassicurante, molti hanno ripiegato verso una medicina omeopatica deformata che sembra mediare bene varie esigenze. Così avviene che molti medici non applicano il sistema metodologico, preciso e definito, che sta alla base della medicina omeopatica, ”inventato”, studiato e descritto dal medico fondatore, il dottor Christian Samuel Friedrich Hahnemann.
C’è da dire, che dall’800 la medicina omeopatica ha subito un’evoluzione in diversi sensi e che, in alcuni casi, si è trattato, purtroppo, di una involuzione. Le ragioni delle varie diversificazioni di metodo sono legate all’individualismo che spesso ha caratterizzato chi ha dovuto imparare, applicare ed eventualmente divulgare la medicina omeopatica.
Se da una parte ciò può sembrare quasi inevitabile, dall’altra si è determinata una vera e propria diaspora dal messaggio hahnemanniano che rischia di proporre sistemi insidiosi per una crescita sana della stessa medicina omeopatica.
Per comprendere i dettagli sui quali si articolano i criteri di qualità di una corretta omeopatia, sarebbe necessario molto tempo ed un viaggio da fare attraverso le mille implicazioni che i vari metodi comportano.
Personalmente ritengo che il metodo hahnemanniano sia un punto cardine e che sia molto pericoloso non accorgersi del suo rigore e della sua profondità scientifica.
Questa affermazione può sembrare anacronistica, perchè i suoi principi risalgono a più di due secoli fa, eppure leggendo e rileggendo le opere di Hahnneman, i suoi insegnamenti e le sue riflessioni, confrontando il tutto con la pratica professionale quotidiana e con l’evidenza che l’evoluzione dei pazienti insegna, ci si rende conto che in medicina omeopatica il metodo è soltanto uno e cioè quello hahnemanniano. La genialità, le doti più uniche che rare di osservatore profondo, lo studio rigoroso, quello dei suoi collaboratori e dei suoi più fedeli successori hanno tutte le caratteristiche per essere assolutamente antesignani di un’evoluzione scientifica che riguarda un futuro probabilmente lontano anche per noi al giorno d’oggi. E’ questo il mistero ed il fascino della medicina omeopatica.
Ora, per dare elementi costruttivi e di chiarezza a chi vuole avvicinarsi, come medico o come paziente alla medicina omeopatica, bisogna innanzi tutto capire che non basta utilizzare dei rimedi omeopatici per poter parlare di medicina omeopatica.
Posso poi aggiungere che, al momento, mancano situazioni istituzionali che siano in grado di regolarizzare la pratica della medicina omeopatica.
Per questo mi permetto, sulla base della mia esperienza personale e degli studi fatti, di suggerire il “decalogo” della buona visita medica omeopatica:
I) L’omeopata deve essere laureato in Medicina e Chirurgia
II)Il medico deve proporsi come omeopata unicista hahnemanniano.
III)Deve volgere la sua attenzione al paziente nella sua globalità, anziché soltanto ai suoi disturbi o patologie conclamate.
IV) Lo strumento di comunicazione fra medico e paziente deve soprattutto essere di natura squisitamente dialettica ed il medico non deve fare uso di alcuna strumentazione alla quale demandare atti diagnostici nel corso della visita omeopatica.
V) Il medico non deve prescrivere più di un rimedio per volta e non deve prescrivere troppi rimedi differenti nemmeno in sequenza.
VI) Il medico non deve fare molte domande soprattutto non deve fare domande prima che il paziente non si sia espresso liberamente.
VII) Il medico non deve mai assecondare la tendenza del paziente ad identificarsi con una malattia.
VIII) Il medico deve comunicare al suo paziente tutta la sua disponibilità all’ascolto ed alla comprensione profonda non soltanto dei referti che il paziente presenta, ma soprattutto al referto che il paziente fa di sé stesso.
IX) Il medico deve adottare un linguaggio semplice e deve mostrarsi incline a recepire il linguaggio semplice del paziente.
X) Il medico non deve trincerarsi dietro il rimedio, ma deve garantire la sua personale disponibilità umana al paziente.
Qualcuno si chiederà perché nel decalogo non si citino mai i doveri del paziente.
La risposta è molto semplice: perché è il medico che deve assolutamente garantire in ogni modo un comportamento che rispetti il paziente e la metodologia.
Quanto al paziente, sarebbe il caso che si presenti al medico omeopata dopo essersi informato quel tanto che basti sulla medicina omeopatica, evitando sviste che possono creare iniziali disagi.
*****Prima di concludere, vorrei ancora trattenermi sulla filosofia profonda che sottende alle dinamiche di salute, malattia e guarigione, alla luce dell’azione di un rimedio omeopatico.
I meccanismi, che la somministrazione di un rimedio “mette in moto” all’interno della persona sono orientati secondo la logica della guarigione, cioè secondo quel processo spontaneo ed intelligente che l’organismo realizza per mantenere il suo equilibrio.
Vi è una “direzione” che i sintomi rispettano nel presentarsi nel corso delle malattie ed anche quando le stesse si avviano a guarigione.
Potrei iniziare a parlarvi della direzione dei sintomi in vario modo, ma preferisco farlo citando Costantino Hering, illustre medico tedesco vissuto dal 1800 al 1880.
Il Dr. Hering ad un certo punto della sua vita, infastidito dall’omeopatia, decide di studiarla per poter pubblicare contro di essa. Così resta rapito e diventa omeopata.
Inizia a studiare le dinamiche della guarigione osservando come guariscono i suoi ammalati.
Elabora la legge di guarigione in cui egli dice: ”La guarigione avviene dall’alto verso il basso, dall’interno verso l’esterno, dagli organi più importanti a quelli meno importanti, in ordine inverso a quello di comparsa dei sintomi”.
Si è abituati a considerare le malattie come compartimenti estranei all’esistenza della persona e quindi da scacciare e da sopprimere, senza chiedersi quale sia il loro reale significato.
Il sistema farmacologico non individua altra via d’accesso alla terapia se non quella di pilotare artificialmente l’espressione dei sintomi con l’intervento di sostanze attive su recettori specifici.
I sintomi però non sono soltanto espressioni da cancellare, ma più che altro sono segnali di malessere più profondi e radicati e possono essere compresi soltanto se inseriti nel contesto dinamico dell’individuo.
Mai quanto in medicina omeopatica il sintomo isolato non ha valore oppure rischia di averne poco se non viene considerato e studiato come inserito in un contesto globale.
La sindrome riveste un significato diverso in medicina omeopatica rispetto all’approccio allopatico, poiché mentre in patologia l’insieme dei sintomi considerati appartiene sempre al mondo della nosografia, cioè della classificazione delle malattie, in personologia, cioè in omeopatia, racchiude sintomi straordinari, peculiari ed eccezionali, molti dei quali addirittura possono non interessare il medico convenzionale.
Nell’umano la più alta espressione dell’integrazione biologica è il linguaggio e quindi esso rappresenta il codice più fedele alla globalità della persona.
Il linguaggio consente di raccontare sé stessi fino alle sfumature più squisitamente individuali.
Una persona mutilata nei suoi arti e gravemente menomata nella sua fisicità può esprimere ancora tutta sé stessa finché è capace di riportarsi al suo linguaggio in qualunque modo, purché possa attingere al mondo figurato delle parole.
Ecco perché la sintomatologia più fine che un medico omeopata può raccogliere è sicuramente quella significata dal linguaggio, che è la stessa raccolta nelle sperimentazioni dei rimedi sui soggetti sani e corrisponde con quella del paziente.
Non vi è possibilità di errore quando si ha la fortuna di poter disporre di sintomi veramente “parlati”.
L’utilizzo delle molecole farmacologiche per silurare soltanto il sintomo più fastidioso o doloroso, magari fisico, è ben lontano da quello del rimedio che corrisponde invece alla complessità espressa dalla totalità dei sintomi così come vengono colti nel corso della sperimentazione pura sul sano e rilevati durante la visita omeopatica, ritraendoli dalla sofferenza spontanea del paziente e riconoscendoli possibilmente nel linguaggio utilizzato dal paziente.
Mettendo a tacere i sintomi con l’azione dei farmaci, tutta l’integrazione complessa dei diversi meccanismi che porterebbero ad una guarigione spontanea viene “bypassata”: si agisce solo sull’ultimo meccanismo che determina il sintomo, quello che si può rimuovere farmacologicamente. In questo modo, probabilmente, gli sforzi terapeutici finiscono con il creare dei cortocircuiti.
Un esempio per chiarire ancora meglio questi concetti. Vi è mai successo che il salvavita del vostro appartamento si attivasse togliendovi la corrente?
La prima cosa che avete fatto è stata probabilmente quella di ridare corrente, agendo sul contatore, ma poco tempo dopo la corrente è andata nuovamente via.
Se avete provato più di una volta a ridare corrente, avete poi dovuto confrontarvi con la spiacevole sorpresa di un elettrodomestico fulminato da affidare ad un riparatore per un intervento anche di un certo onere.
Come ogni elettrodomestico ha un fusibile anche ogni organo ha una riserva funzionale che ammortizza le disfunzioni energetiche. Vale a dire che tutte le malattie, prima di essere organiche, attraversano delle fasi funzionali, impalpabili, in cui i disturbi sono talmente lievi che gli strumenti diagnostici non li percepiscono. Li percepisce solo il paziente come sensazioni sgradevoli.
Man mano, se queste perdurano, verranno coinvolti piani sempre più organici e meno funzionali e compariranno le lesioni.
Tornando al nostro esempio, bisogna sottolineare che l’intervento del salvavita, pur privando la casa dell’energia elettrica, rappresenta una funzione attiva.
Il disagio della malattia diviene allora la chiave di lettura per correggere le premesse profonde che hanno generato e che nel contempo rendono necessarie le manifestazioni patologiche.
Ricordo di aver assistito una volta ad una scena molto didattica in un’officina meccanica, direi una lezione di vita, di logica e di medicina. Arrivò il proprietario di una vettura di gran classe cui il meccanico aveva sostituito il gruppo della turbina (che aveva un costo di circa tre milioni di lire).
Il disturbo presentato dalla vettura era stato un improvviso calo di potenza e la diagnosi del meccanico si era espressa riferendosi al blocco della turbina bruciata.
Il signore uscì per provare l’auto e pochi minuti dopo ritornò arrabbiatissimo perché la vettura inizialmente aveva presentato un comportamento normale e poi improvvisamente aveva perso potenza esattamente come prima dell’intervento riparativo del meccanico.
La verità purtroppo è che il meccanico non si era chiesto perché la turbina si fosse bruciata e l’aveva soltanto sostituita.
La turbina si era bruciata perché il circuito di lubrificazione dell’olio era ostruito. Avremmo quindi potuto cambiare mille volte la turbina e l’avremmo sempre bruciata.
Forse dovremmo considerare gli organi sofferenti come fusibili in difficoltà e non dimenticare mai che dietro un fusibile vi è un circuito enormemente complesso con delle priorità anatomiche e funzionali da rispettare.
Quando la Medicina non sarà più rivolta soltanto ai sintomi, ma presterà attenzione alla persona nella sua interezza, compresi i sintomi, e quando si sarà in grado di valorizzare tutti i sintomi ma proprio tutti i sintomi espressi dalla persona e non dalla malattia, allora si sarà realizzata quella rivoluzione scientifica di cui la Medicina ha bisogno per assurgere a dignità di scienza autonoma dedicata alla vita. Quando cioè si considereranno sintomi anche quelli che un medico che non sia omeopata non è addestrato a riconoscere come tali e che in ogni caso non può valorizzare per una prescrizione di rimedio, allora il concetto di visita e di terapia si accosterà maggiormente alla reale complessità della persona studiata nel rapporto integrato fra salute e malattia.
La malattia allora è la migliore risposta possibile che l’organismo elabora e fornisce.
E’ inevitabile che la medicina omeopatica si contrapponga nettamente a quella allopatica per quanto riguarda l’interpretazione dei sintomi e del concetto stesso di malattia, nonché per le implicazioni terapeutiche conseguenti. Ovviamente, nel momento in cui si toccano certi argomenti, si rischia lo scontro con la comunità medica attestata sulle conoscenze accreditate.
L’energia profonda che muove i sintomi e condiziona le modalità con cui le malattie percorrono il malato è la Vis Medicatrix Naturae, la forza guaritrice della natura.
La perturbazione energetica, i malesseri che non vengono ancora riscontrati dagli strumenti diagnostici ma che il paziente percepisce a livello di sensazioni di malessere, interessano inizialmente soltanto questa forza. E’ lo stesso dottor Hahnemann, padre della medicina omeopatica, a dimostrarcelo: soltanto con la permanenza delle cause patogene, la perturbazione energetica riesce a penetrare inizialmente nelle dinamiche funzionali, quindi nel terreno organico ed infine, perdurando il blocco energetico, riesce a sconvolgere profondamente la vita potendone procurare anche l’interruzione.
Una profonda intelligenza biologica sa quale giusta sequenza sintomatologica realizzare per salvaguardare fino all’ultimo la sopravvivenza del sistema.
In un contesto sociale così medicalizzato forse la storia naturale delle malattie, che in medicina significa l’evoluzione senza intervento terapeutico, non esiste quasi più e questo, in fondo, lo sanno molto bene anche i medici allopati.
Un altro esempio che si può fare per capire meglio il significato di quanto detto è il caso delle manifestazioni eczematose dei bambini che, soltanto dopo soppressione farmacologica con l’applicazione di sostanze locali, danno adito a manifestazioni più profonde a carico delle vie aeree e/o digestive oppure danno manifestazioni a carico di altri organi ed apparati, compreso il sistema nervoso centrale.
Lo sforzo della malattia è quello di ripristinare i flussi centrifughi e che invece l’intervento di fattori esterni quali ad esempio i farmaci sopprime.
L’utilizzo dei farmaci, come detto, è, invece, determinante nel modificare l’espressione dei sintomi e nel complicare l’evoluzione della malattia.
L’organismo finisce per essere impegnato in un doppio lavoro e cioè non solo quello che stava svolgendo per porre in atto meccanismi esonerativi naturali ma anche quello per correggere i sabotaggi procurati dai medici che deformano ed alterano più o meno profondamente l’azione della Forza Guaritrice della Natura.
Tommaso Paschero, celeberrimo medico omeopata, scomparso recentemente, dice che la legge di guarigione corrisponde alla legge universale della conservazione dell’energia.
“La Vis Medicatrix preserva l’equilibrio psichico della persona ed è una corrente efferente di energia che emergendo dal primogenito istinto di vita, la volontà d’amore, l’integrazione col mondo, trasmette all’apparato muscolare, fino alla superficie, questa volontà di realizzazione, così come fanno gli elettroni con l’atomo. Ogni volta che questa corrente energetica subisce un’interferenza, si produce un blocco dell’energia in un organo o in un settore dell’economia dell’organismo e si sviluppa la lesione patologica”.
La persona sana è attraversata dall’energia che fluisce liberamente garantendo un ampio grado di libertà in ogni momento.
Pretendere di eliminare eruzioni cutanee con i farmaci locali è un controsenso, perchè è contrario alle logiche di guarigione naturali, logiche che, invece, operano salvaguardando gli organi più importanti del corpo. Queste logiche permettono che le malattie di “sfoghino” preferibilmente attraverso strutture periferiche come la pelle e le mucose. Soltanto l’omeopata nella pratica medica quotidiana rimuove anche queste manifestazioni, promuovendo nell’organismo le logiche di guarigione che i farmaci sopprimono.
Lo stesso dicasi per tutte quelle manifestazioni che ancora oggi, nonostante i profondi studi di tipo immunologico, restano accomunate nella vaga terminologia di malattie reumatiche e che, nell’ottica omeopatica, altro non sono anch’esse che manifestazioni di ordine secondario, cioè malattie i cui sintomi sono stati soppressi e non curati e che sono diventate “vaganti”, hanno cambiato posto e via via, si sono insediate in organi sempre più importanti.
Eppure proprio i reumatismi sono ancora una volta oggetto di ulteriori atti terapeutici farmacologici che altro non inducono se non alterazioni più profonde e di gravità maggiore per l’economia globale della persona.
Ora io vorrei qui portare il lettore per mano verso la riflessione più approfondita sui concetti espressi fino ad ora.
Mi rendo conto, introducendo il discorso che riguarda malattie gravi come il tumore, che vado a toccare la sofferenza diretta e indiretta di tantissime persone. Però sono convinto che la strada per la prevenzione e la cura dei tumori sia quella indicata dalla medicina omeopatica. Per questo invito a riflettere con serenità e con apertura mentale.
In oncologia medica il termine metastasi si riferisce a localizzazioni secondarie di un tumore maligno sorto a carico di un organo.
In medicina omeopatica, se riflettiamo con attenzione, probabilmente già il tumore è l’ennesima metastasi che si realizza dopo una serie chi sa quanto lunga di altri meccanismi metastatici, vale a dire di “spostamento delle malattie”.
Dopo il primo errore, che può, ad esempio, partire con l’applicazione di cortisonici locali, le tappe possibili rappresentate da ulteriori soppressioni con corrispondenti ” spostamenti delle malattie”, possono essere di tanti tipi: le vaccinazioni incongrue, la terapia farmacologica dell’asma subentrata all’eczema rientrato, l’ablazione chirurgica delle tonsille e perché no anche delle adenoidi etc.
Questo elenco non è stato fatto per spaventare, ma per far comprendere che la salute di un organismo è più facilmente gestibile se ci sono più “fusibili”, più valvole salvavita che possono darci segnali di malattia e permetterci di porre ad esse rimedio, senza che vengano intaccati organi sempre più importanti per l’integrità del corpo.
E la mia esperienza di medico, i contatti quotidiani con i pazienti, mi confermano, giorno dopo giorno, questa teoria. Posso dire che in seguito al mio passaggio dalla medicina allopatica a quella omeopatica ho riletto ad esempio la “storia” della malattia e della morte di una persona a me molto cara. Questa persona non sopportava nemmeno la rinorrea di un raffreddore comune e tentava di sopprimerla subito con numerosi farmaci… ebbene questa persona, pur non essendo un colelitiasico (soggetto affetto da calcolosi delle vie biliari) né un alcolista ha sviluppato un adenocarcinoma altamente indifferenziato della colecisti che l’ha condotto a morte in pochi mesi.
Anche citando questo caso non voglio fare dell’allarmismo eccessivo. Parlando di questo esempio, non ho voluto dire, per estremo, che chi ha usato qualche volta un vasocostrittore nasale sia condannato ad un tumore. Ritengo, però, che un uso massiccio di questi farmaci possa portare a malattie molto gravi.
A questo punto voglio ricordare che, quando l’omeopata prescrive un rimedio che avvia il paziente alla guarigione di una malattia importante, spessissimo i segni della guarigione sono preceduti da scoli nasali (tipo raffreddore), congiuntiviti, diarree, vomiti, esattamente ciò che “normalmente” si reprime quotidianamente in un contesto sociale medicalizzato.
Tutti i sintomi hanno una spiegazione che ha bisogno della conoscenza della legge di similitudine (la legge dell’omeopatia). Il vero filo conduttore di ogni buona terapia è considerare ogni malato come una persona speciale ed indentificare per lui una terapia individuale che non può non basarsi se non sulla legge di similitudine.
Lo stesso Hahnemann nel suo trattato “Le Malattie Croniche” riporta una vastissima serie di osservazioni svolte, non soltanto da lui, osservazioni in cui impera evidente lo sfacelo che segue ad una serie di soppressioni farmacologiche di manifestazioni che inizialmente periferiche, divengono sempre più profonde man mano che l’organismo si vede costretto a realizzare metastasi morbose o alternanze di patologia.
Questi esempi servono a comprendere che i sintomi delle malattie così come potrebbero apparire staccati nelle varie epoche della vita del paziente, spesso sono collegabili ad un’unica forza che non è stata compresa e che è stata ripetutamente soppressa, ricacciata all’interno della persona, ignorandone la capacità devastante nei confronti di piani sempre più profondi fino ad arrivare anche a provocare cambiamenti nel temperamento.
Il rimedio, invece, attraverso la sua dinamica infinitesimale, è in grado di promuovere nuovamente il giusto orientamento delle esonerazioni. Il rimedio permetterà al corpo di procedere a ritroso: potrà far provare i sintomi di malattie avute nel passato ma anche stati d’animo e atmosfere emozionali correlate al passato (il ritorno dei sintomi) e attiverà dei canali di sfogo che permetteranno al paziente di “liberarsi” delle tossine e dei blocchi di energia.
E questo avverrà in poco tempo: non è vero che i rimedi omeopatici hanno bisogno di mesi prima di essere efficaci. Un rimedio omeopatico adatto alla persona mostra i suoi primi effetti nel giro di poche ore. Questi effetti sono la dimostrazione che il processo verso la guarigione è cominciato.
Vorrei poi ricordare che la gestione dei casi acuti ed episodici con un rimedio omeopatico è generalmente sconcertante per la velocità e la validità dei miglioramenti e che non necessariamente deve passare da uno studio approfondito del paziente come persona.