Tutti per uno, “IO” per tutti
Bisogna che le persone capiscano che l’uno del noto proverbio non può non essere che l’IO personale di ognuno di noi, di fronte alla vita di tutti, al servizio della Comunità, che trascende dai nostri interessi personali.
L’uomo che viene al mondo esiste per sé e per gli altri.
Il tenore di vita di un popolo occidentale, che dall’oriente ha appreso troppo poco per potervisi ispirare spontaneamente, miscela il sacro e il profano, talvolta con estrema facilità, forse, addirittura con banalità.
L’oriente apre il cuore alla contemplazione, con le ali della meditazione e della impermanenza, lasciando il minimo alle certezze e alla pianificazione, in un contesto di purezza del rapporto con la natura e con le altre entità senzienti del contesto.
L’occidente pianifica persino la transgenerazionalità, in termini di economia e finanza, paralizzando la fluidità dell’avventura ontologica individuale e inserendo il concetto di fortuna ereditata.
E’ evidente che i paradigmi risultano antitetici, ab initio, perché uno parla dell’individuo e l’altro parla della società, ma ognuno di tali iter nasce in una dimensione che lo ha originato senza alcuna forzatura.
L’individuo usa processi elaborativi completamente diversi dalla comunità/mandria, che pur esiste, come se fosse un solo unico individuo, che è la sommatoria di tante singolarità individuali.
Preferisco davvero iniziare a parlare in questo modo, se devo riferirmi anche soltanto ai più elementari motivi che spingono una persona a rimanere in occidente, oppure a recarsi in una dimensione geografica e culturale orientale.
Si resta in occidente quando si vuole fare corpo con la società, si viaggia in oriente quando si è in cerca di sé stessi.
Parole di attinenza occidentale sono: storia, cultura, industria, progresso, società, istituzione, burocrazia, obbligo, politica, finanza, banca, stato.
Parole di attinenza orientale sono: estemporaneità, improvvisazione, ozio, civiltà, individuo, creazione, efficienza, facoltà, semplicità, risorse, categoria.
La parola banca, tipicamente occidentale, non solo non ha un equivalente orientale, ma non ha nemmeno un suo contrario, nel dizionario dei sinonimi e dei contrari.
Un individuo in occidente socializza, in oriente trascende, in occidente investe, in oriente si libera di tutto.
Trattasi di dinamiche che si muovono sulla stessa retta, ma in senso contrario.
Perché vi parlo di questi argomenti? Perché me lo suggerisce la classica diatriba fra coloro che sostengono l’impossibilità di riuscire a modificare la società, attraverso un lavoro sulla sua totalità, e coloro che prendono a cuore l’esercizio dell’attività politica, come mezzo per preparare l’alveo entro il quale scorre la storia dell’individuo.
E’ come chiedersi se viene prima la persona oppure la società in cui essa vive.
La metodologia della relazione procede dal particolare al generale, oppure dal generale al particolare, dalla persona alla comunità, o dalla comunità alla persona?
Io direi di tentare di fare ordine nella complessità delle affermazioni che orbitano attorno all’interessarsi del proprio destino, oppure di quello della comunità in cui si vive.
Nell’esperienza quotidiana, si incorre facilmente nel dualismo fra individualità e società, sino a rasentare il dualismo fra egoismo e l’altruismo.
Mi viene automatico pensare alla differenza fra ontogenesi e filogenesi, cioè tra sviluppo dell’individuo nella sua vita e quello dell’individuo attraverso l’evoluzione della sua specie.
I tratti storiografici sembrerebbero essere diversi, ma, se osserviamo con attenzione, le tappe individuali rispecchiano quelle della specie.
Allora, che cosa cambia tra un’evoluzione e l’altra, tra le cellule che rincorrono il progetto e il progetto che rincorre le cellule?
Quando una persona cerca sé stesso, sta entrando nei motivi della sua vita, quando una persona fa corpo con la società, si sta lanciando da sé verso il risultato possibile delle sue percezioni. E’ una scommessa che si gioca fra il credere in sé stessi e il credere negli altri.
La situazione emblematica è quella per cui alcuni rifuggono dall’impegno sociale e altri vi si gettano a pesce, arrivando anche a trascurare la condizione individuale.
Facilmente, accade che le persone, prese dalla propria vita, disdegnino impegni di verso contrario, e viceversa.
La disapprovazione dello stile altrui arriva anche al dileggio, all’opposizione, allo svilire la sacralità che ognuno attribuisce alla sua forma espressiva, che, volenti o nolenti, è, in ogni caso, la partecipazione sociale di cui si è capaci.
Insomma, sia chi pensa a sé stesso che chi si proietta nella dimensione comunitaria sta agendo all’interno di un gioco di forze poliedrico, di cui sceglie quanto essere protagonista. I vettori sono tanti, ma quanti di questi vettori sono nostri?
Un’espressione massimale di tale tipo di dualità è quella che oggi si delinea fra i difensori delle istituzioni e i difensori del popolo, nello stridore che si genera, a seconda che si voglia difendere i contenitori oppure i contenuti.
Il disagio delle persone è talmente avanzato, che meravigliano coloro i quali non se ne accorgono o dicono che non abbia senso dedicarvisi.
Spesso accade che gli attivisti, quelli che si guardano affianco nella propria vita, siano derisi, o almeno sconsigliati di porsi in gioco per questioni che superino l’area di controllo personale, oppure, per così dire, familiare.
Allora dobbiamo arrivare a considerare il così detto familismo amorale, descritto da Banfield, che giunse a descrivere la ferocia sociale dell’individualismo familiare.
Il malinteso nasce dal considerare la famiglia come se fosse la cellula fondamentale della società, mentre trattasi soltanto di un piccolo organulo intracellulare che non ha vita autonoma, essendo interrelato con le altre famiglie in una dinamica multidimensionale molto complessa, incapace di funzionare ad un livello più povero di elementi diversificativi.
Le famiglie di una tribù conoscono il proprio destino comune, quelle di una città credono nella forza della supremazia di una famiglia su di un’altra. I rituali del primo caso sono completamente estranei alle regole della seconda situazione.
Dove il legame con la Natura è ancora saldo e puro, si riconosce lo stesso comune cielo dal quale piove acqua oppure fuoco, per tutti, ma, con il procedere della divisione dei percorsi di organizzazione sociale, si arriva a credere che il destino dell’operaio è un’altra cosa da quello del padrone.
Si è proceduto sino a non poter vivere sotto lo stesso cielo, che diviene motivo di ricchezza per gli uni e motivo di disgrazia per gli altri.
Mi viene in mente la muta di cani che, numerosi, tirano la slitta nella tormenta di neve, perseguendo l’unico scopo di raggiungere il villaggio e riposarsi.
Mi viene in mente la cordata degli alpinisti sul ghiacciaio, esperienza che ho vissuto più volte, e che pone in rilievo una delle caratteristiche più peculiari delle creature sociali: l’abnegazione individuale per la riuscita collettiva.
Scaldando i motori dell’anima, affinché io possa riuscire ad esprimere il meglio della verità, mi rendo conto che soltanto una condizione di vuoto individuale mi consente di essere più imparziale sulle variazioni possibili della vita, come la immaginiamo quando siamo in mezzo agli altri.
E’ curioso, ma penso che il massimo dell’evoluzione individuale dell’individuo sociale sia la sua astrazione dal sé, in risonanza con una sorta di intelligenza psichica ed emozionale della grande famiglia sociale che egli contribuisce a formare.
Non importa che tale forma di partecipazione si chiami politica, oppure condominio, o in qualunque altro modo. Serve che vi sia un flusso di interessi da una persona all’altra, in cui facilmente possano scambiarsi i ruoli, pur rimanendo in una condizione di agio e benessere.
Il contrario si chiama diseguaglianza, sino a pensare di avere il diritto di esercitare un controllo della vita degli altri che non si vorrebbe sulla propria esistenza.
Oggi, gran parte del controllo esercitato viene presentato come una funzione di pubblica utilità, mentre è soltanto la garanzia unidirezionale che il sistema politico, disumano e colluso, pretende di esercitare sulle persone comuni, che restano fuori del gioco.
I vantaggi del controllo dovrebbero essere egualmente a disposizione di tutti, non soltanto essere il mezzo per innalzare delle roccaforti, dalle quali schiacciare i propri simili.
Allora, torniamo alle prime righe, in cui ho parlato del movimento dall’io agli altri e viceversa.
L’io collettivo si nutre del rispetto dell’io individuale, quanto l’armonia di questo garantisce la libera espressione di ogni io individuale.
Le espressioni meritevoli di approvazione devono rispettare la vita di tutti, senza monopolizzare il diritto a vivere, il diritto di sostentarsi, il diritto di quanto godere del proprio lavoro per sé e per la comunità, ma, soprattutto, il diritto di delimitare il confine tra la propria sofferenza e il privilegio degli altri, visto che la Terra accoglie egualmente ogni individualità.
Ognuno espanda i propri limiti per fare spazio ai bisogni degli altri, ognuno moderi la propria espansione che possa non rispondere alla dignità collettiva della condizione umana sulla Terra.
I saggi si difendono rimanendo in disparte?
Penso che il timore dei saggi di non poter fare dono dei propri limiti agli altri diventi spesso una responsabilità grandissima nel non consentire e facilitare un cambiamento che le persone, da sole, non possono riuscire ad ottenere.
Questa è la mia risposta a coloro che mi chiamano illuso, quando ritengono che io sciupi il mio tempo per “operazioni” che non dovrebbero riguardarmi.
Però, a questo punto, vi chiedo:”Come faccio ad esprimere la mia speciale natura sociale, quella scintilla che mi impedisce di trascurare gli interessi assoluti che garantirebbero la verità a tutti?”
La scommessa di un uomo è vinta davvero quando è la scommessa che tutti ignorano, pur potendone godere.
Mi dispiace, non penso che bisogna ritrarsi nella coltivazione della propria individualità o di quella dei propri cari; è una questione di amore. Quando se ne ha tanto, esso fluisce e rinforza la falda, senza esaurirsi, anzi zampillando ancora di più.
Quando un bambino viene al mondo, trova la vita che gli altri hanno preparato per lui. E come sarebbe possibile che sia quella giusta, se gli altri hanno pensato solo a sé stessi?
Il nostro sistema finanziario scoraggia persino il bambino appena nato, affibbiandogli un debito non contratto, spezzando sul nascere la speranza e la magia della ricchezza, che una vita nuova apporta all’intero Pianeta. Non possiamo più ritenere che ciò sia normale e che venga insegnato nelle Università, dobbiamo reagire, uscendo dalla nostra perbenistica individualità, spezzando le catene, tagliando le corde, ridando alla vita le sue ali.
Quando una persona esce di casa e si protende al viaggio in mezzo agli altri, sta rischiando di credere in altre persone che, come lui, hanno fatto la stessa cosa. E come sarebbe possibile fidarsi, se continuiamo a credere che sia impossibile farlo?
La nuova umanità non ha paura di rischiare, non teme di essere derisa per la purezza dei propri ideali e per la volontà strenua con cui si impegna ad applicarli.
La politica sociale collettiva non riconosce individualismi che non riconoscono l’individualità sacra di ognuno di noi.
L’unico mezzo per ottenere una società a misura d’uomo è uscire dal cammino degli uomini per rientrare nel cammino dell’Uomo. E farlo tutti insieme, gareggiando per chi riesce a farlo meglio per tutti.