Farmaci salvavita – Medicina omeopatica – Urgenza ed emergenza chirurgica
Le possibilità di influenzare i sistemi biologici del paziente per finalità terapeutiche possono vertere sul piano medico o su quello chirurgico.
L’approccio terapeutico può svolgersi in regime di elezione, urgenza ed emergenza.
Parliamo di emergenze. Il riscontro dei risultati é parametrato dalle comprovazioni di efficacia: ad esempio in uno scompenso di cuore acuto con edema polmonare, è di fondamentale importanza ridurre il precarico e decomprimere il circolo periferico con sostanze vasculotrope, sostenere l’attività cardiaca con sostanze di tipo strofantinico, stabilizzare le membrane con molecole steroidee, compensare l’eventuale ipervolemia di circolo. Tutto ciò avrà buone possibilità di imprimere una svolta positiva all’emergenza.
I piani sui quali si articolano le valutazioni di efficacia poggiano essenzialmente su nozioni di ordine fisiopatologico e farmacologico che, in tal senso supportano il comportamento clinico ed informano il giudizio prognostico.
Si delinea così il concetto di farmaco salvavita che implicitamente è legato a molecole particolari con caratteristiche farmacodinamiche tali da permettere un intervento mirato sui meccanismi che determinano l’emergenza.
Per quanto riguarda la medicina omeopatica, i meccanismi fisiopatologici si trasformano in quelle evidenze sperimentali e cliniche che vanno dalla capacità di un rimedio di evocare un complesso sintomatologico nel soggetto sano, passano attraverso la banca dati degli studi tossicologici dai quali si è molto attinto per l’utilizzo delle sostanze sottoposte a procedimento omeopatico, fino ad arrivare all’utilizzo di tutte quelle sostanze che praticamente si usano sia in allopatia che in omeopatia con filosofie però differenti.
Per esempio l’impiego dei sali di potassio consente a debole dose un’azione tonica e a forte dose un’azione inibitrice sui muscoli lisci. Il bicromato di potassio, capace di produrre ulcere, è capace di guarirle, a condizione di essere richiesto dai sintomi del malato. L’utilità dello zinco nelle malattie anche acute del sistema nervoso è stata resa indiscussa con l’uso dell’omeopatia, mentre l’uso dello zinco in allopatia si è ridotto essenzialmente ad applicazioni topiche. E’ così che dopo l’uso di prodotti topici a base di zinco per la terapie delle dermatiti è possibile assistere all’insorgenza di disturbi anche gravi del sistema nervoso centrale come disturbi epilettici o sofferenze meningee.
Il rame che nell’intossicazione acuta procura vomito, diarrea, algidità, crampi violenti nell’addome e dei muscoli, per similitudine è un rimedio davvero curativo del colera ed anche preventivo.
Lo stato di angoscia con sensazione di morte imminente che caratterizza l’angor risentirà sicuramente in modo eccezionale del trattamento con un rimedio omeopatico come l’Aconitum ed influenzerà positivamente la prognosi globale del paziente in misura in cui sarà in grado di sedarlo e di far rientrare la discrepanza fra trofismo vascolare e consumo di ossigeno miocardico.
Gli esempi dell’applicabilità di un rimedio omeopatico alle situazioni di emergenza sono ovviamente infiniti.
Personalmente penso che sia possibile influenzare positivamente l’edema polmonare, l’insufficienza renale acuta, reazioni anafilattiche severe, crisi convulsive, quadri psichiatrici di eccezionale portata con rimedi omeopatici, ricorrendo anche contemporaneamente ai farmaci del caso.
Di fondamentale importanza è che il clinico non attui soltanto un comportamento di tipo clinico medico tradizionale, ma di altrettanto dignitosa clinica omeopatica, cioè che sia in grado di valorizzare tutti, ma proprio tutti i sintomi della totalità del paziente, sui quali sia possibile prescrivere un rimedio.
Quando un paziente non è inquadrabile nell’ambito dei sintomi della materia medica omeopatica, significa che la sua situazione è davvero grave e la prognosi in ogni caso potenzialmente infausta indipendentemente dal tipo di approccio medico impiegato, oppure che le lesioni organiche sono così evolute da compromettere seriamente la sopravvivenza del paziente sulla scorta della sua reattività, oppure che il medico, per vari motivi, non ultimi i suoi limiti diagnostici, non è riuscito ad individuare il simillimum.
Diversamente, quale che sia la gravità del quadro, se vi sarà un simillimum che davvero rispecchi la congruenza indivisibile globale del paziente, la prognosi sarà sempre eccellente.
E’ ovviamente necessario che il clinico possieda, oltre a conoscenze approfondite, una discreta esperienza clinica sia di tipo allopatico ospedaliero e di pronto soccorso che di tipo omeopatico.
Infatti è assolutamente necessario che il medico sia in grado di ponderare il significato delle sue scelte e possa ridurre al minimo l’importanza dei suoi comportamenti eventualmente considerati omissivi nei confronti di approcci terapeutici cosìdetti di comprovata efficacia.
Purtroppo, in sede di giudizio, occorrerebbe la presenza non solo di esperti allopati, ma anche di esperti omeopati, al fine di valutare non più soltanto la differenza di efficacia fra approccio allopatico ed omeopatico, ma la discrepanza eventuale fra obiettività clinico-sintomatologica e coerenza comportamentale del medico considerato nella sua preparazione globale comprendente i diversi orientamenti culturali ed operativi di base.
Al contrario si corre il rischio di sottovalutare gli errori in medicina tradizionale e di sopravvalutare quelli invece realizzatisi in atmosfera omeopatica.
La conferma dell’efficacia di un trattamento medico, specie in regime di emergenza, non può prescindere da una valutazione senza pregiudizi della reale gravità delle singole situazioni e della reale efficacia dei vari trattamenti che un medico, in virtù della sua formazione scientifica, decide di attuare.
Se vogliamo spostare la nostra attenzione dall’emergenza medica a quella chirurgica, bisognerà aggiungere agli argomenti già esposti quelli legati alla valutazione prognostica che un medico omeopata può svolgere di fronte all’acuzie con indicazione chirurgica.
Ad esempio, personalmente ho avuto modo di trattare con soli rimedi omeopatici dei quadri di appendicopatia documentati, evitando sistematicamente l’intervento chirurgico.
E’ risaputo che lo stesso chirurgo, una volta aperto l’addome, rimuove anche un’appendice cui non riconosce la capacità di avere procurato l’addome acuto.
Eppure il paziente, nella maggior parte dei casi, supera l’episodio ed alla fine non si sa bene che cosa sia davvero accaduto.
E se tale tipo di paziente avesse superato l’acuzie con un rimedio come Belladonna oppure Arnica o Bryonia, che cosa avremmo detto successivamente: che l’intervento chirurgico era inutile? Però il paziente sarebbe stato operato lo stesso!
In verità la valutazione dell’urgenza e dell’emergenza chirurgica dipende sempre dal contesto in cui il quadro clinico si realizza e dalle filosofie di base che predispongono il medico a ragionare in un certo modo e l’utenza ad accettare il modo in cui i problemi sono gestiti.
Quando vi è una situazione grave con pericolo di vita, l’utenza quasi sempre si aspetta condotte improvvise, tempestive, anche azzardate, ma in questi casi, così come si riducono le certezze di sopravvivenza si riducono anche le certezze in termini di opportunità di trattamento. Alla fine può diventare davvero difficile rendersi conto di che cosa abbia realmente determinato l’insuccesso.
Negli Stai Uniti, qualche anno fa è stato condotto uno studio sui politraumatizzati gravi presso un centro di chirurgia d’urgenza.
Lo studio era volto ad appurare la differenza del decorso e di sopravvivenza nell’arco dei primi giorni dall’incidente in base alla condotta terapeutica.
Ebbene il gruppo di pazienti sottoposti immediatamente a manovre chirurgiche estreme aveva una sopravvivenza molto bassa rispetto al gruppo in cui si riduceva l’approccio chirurgico al minimo indispensabile e si manteneva il paziente in vita, rimandando la grande chirurgia a quarantotto ore dopo.
Il commento degli operatori avrebbe valorizzato l’importanza delle reazioni spontanee dei politraumatizzati che avrebbero concesso loro di sopportare con successo maggiore le manovre chirurgiche di per sé abbastanza delicate necessarie a ripristinare lo stato di salute.
In pratica un organismo lasciato reagire, sopporta meglio la chirurgia, in occasione di un evento traumatico grave.
Queste evidenze suggerirebbero di valorizzare l’importanza degli aspetti reattivi spontanei dei sistemi viventi, ridimensionando implicitamente l’importanza talora sopravvalutata di approcci molto più invasivi e tempestivi che giungono dall’esterno.
Come dire, rivalutare l’intelligenza dei nostri sistemi biologici, puntando essenzialmente sulla capacità di consentire a questi di esprimere tutta la loro efficacia. La Vis Medicatrix Naturae.
Se poi davvero non si vuole dimenticare il concetto di terreno di base, sarà indispensabile non sottovalutare in ogni caso l’importanza del trattamento omeopatico, per l’appunto medicina di terreno, al fine di non vanificare anche il miglior intervento.
Molti interventi non hanno esito soddisfacente proprio perchè si è trattata la “materia vivente” come se fosse inerte, dimenticando che qualunque aspetto materiale inserito nel biologico è autoformantesi e si modifica secondo un’intelligenza superiore che sfugge al controllo anche del miglior chirurgo.
Si pensi alla bizzarria con cui talvolta si realizzano dei cheloidi oppure si creano deiscenze praticamente inspiegabili, per non parlare delle infezioni che si impadroniscono del paziente compromettendo qualunque risultato, a dispetto di qualunque terapia farmacologia ad esempio di tipo antibiotico.
In tutti questi casi il chirurgo probabilmente non sa quanto un adeguato trattamento omeopatico potrebbe essergli amico, modificando le indicazioni dell’intervento, potenziando la reattività del paziente in corso di intervento, conferendo al decorso postoperatorio dei tratti assolutamente più rassicuranti.
E’ sempre auspicabile che gli agonisti dei vari tipi di medicina si incontrino in un atteggiamento costruttivo e di trasmissione biunivoca di verità e di confronto sereno, ma soprattutto senza pregiudizi.
Inoltre bisognerebbe sempre considerare che molti medici omeopati sono prima di tutto ottimi allopati e quindi hanno già avviato dentro di sé questo confronto di istanze con esito migliorativo delle proprie doti professionali e della propria efficacia.
Medicina omeopatica e polifarmacia
Le possibilità di integrare l’uso di rimedi omeopatici con quello di farmaci vengono spesso presentate, ma sarebbe opportuno che se ne investigassero meglio i reali significati e le implicazioni dei rapporti eventuali nell’applicazione clinica.
Direi che il problema essenziale non è quello di accostare o dividere farmaci e rimedi, piuttosto di non confondere gli approcci che a livello filosofico, scientifico, epistemologico e metodologico informano quelli che in fondo sono comportamenti differenti.
Allora il problema viene spostato da ciò che il medico usa a ciò che gli suggerisce che cosa e quando usarlo.
Per esempio, in atmosfera allopatica, si prescrive terapia antiipertensiva a vita in un paziente con valori pressori abitualmente elevati da un certo periodo di tempo.
Quando questo paziente si rivolge all’omeopata, l’attenzione diagnostica viene per così dire a riconsiderare tali e tanti aspetti dello stesso, che l’azione dell’antiipertensivo diventa periferica, poco importante o addirittura disturbante.
Si pensi a tutti gli effetti collaterali che le comuni terapie procurano sui vari piani.
La maggior parte delle ipertensioni sono idiopatiche, criptogenetiche. Perché un trattamento farmacologico dovrebbe essere più efficace di una terapia che influenza nella sua totalità la persona e che probabilmente modificherà tutto in meglio?
Ecco perché il medico, nel caso di un paziente che assume un antiipertensivo avrà il dovere di tentare di togliere il farmaco, monitorando i valori pressori, seguendo con attenzione l’evolversi della situazione globale del paziente e tentando di controllare eventuali sbalzi pressori con rimedi omeopatici intercorrenti oltre a quello profondo prescritto nelle visite.
Il farmaco dovrà sempre essere l’ultimo presidio, fino a prova contraria.
Senza considerare che una pressione tenuta sotto controllo con presidi farmacologici, senza aver modificato abitudini incongrue, stili di vita patogeni, senza aver rimosso tutti gli stressors ipertensivanti, non darà guarigione al paziente e non lo proteggerà da tutti gli effetti dannosi dei quali il valore pressorio è soltanto la parte emergente.
Bisogna ricordare che il medico omeopata, pur riconoscendo le malattie, è chiamato soprattutto a riconoscere la persona nei suoi dinamismi evolutivi ed egli ha un formidabile strumento a disposizione che è il rimedio omeopatico il quale gli consente di interferire positivamente sui meccanismi che ammalano la persona e determinano l’espressione dei sintomi.
Il medico rimuoverà tutti i farmaci che in tale processo di rifiorimento profondo possono risultare inutili e/o dannosi.
Per decidere in questi termini, il medico omeopata non dovrà soltanto considerare i parametri della medicina delle malattie, ma soprattutto quelli della medicina delle persone.
La pratica clinica omeopatica insegna infatti che un miglioramento ottenuto sopprimendo un sintomo non corrisponde al miglioramento della persona e che soltanto un miglioramento della persona nel suo substrato emozionale e psichico prelude alla risoluzione anche di gravi problemi organici.
In talune situazioni il medico non può indurre alla sospensione di uno o più farmaci, in tutti quei casi in cui egli riterrà rischioso privare il paziente dell’ effetto protettivo dell’azione della molecola.
Attenzione però, poiché il metro di valutazione dovrà essere “regalmente” obiettivo, dato che in questo genere di argomento s’insinua facilmente l’abitudine, la mancanza di una profonda dimestichezza con l’uso dei rimedi, una sorta di timidezza che molti omeopati incerti vivono e trasmettono ai loro pazienti, la paura di eventuali ripercussioni medicolegali.
E’ vero che un’infezione anche grave non guarisce se il terreno del paziente non lo consente, anche usando tutti gli antibiotici che vogliamo.
E’ vero che se un’infezione di qualunque genere è contestualizzabile in una totalità di sintomi del paziente congruente con quella del simillimum, la guarigione omeopatica sarà sempre veloce e brillante quanto mai quella allopatica.
E’ vero che il medico dovrà, con molta umiltà, ricorrere al farmaco, qualora si accorga di non riuscire ad estrarre una serie di sintomi tale da fargli esprimere una prognosi omeopatica fausta.
Il principio per cui è possibile ottenere una guarigione spontanea, mossa soltanto da uno stimolo, indipendente dall’azione di qualunque molecola, dovrebbe interessare qualunque medico, a maggior ragione il medico omeopata, non perché egli si ostini ad utilizzare solo rimedi, ma perché egli ha la formazione per comprendere le reali dinamiche fra salute e malattia sul terreno della persona e non soltanto della sua fisiopatologia.
Parlando di polifarmacia, è necessario anche considerare il frequente malvezzo di utilizzare diversi rimedi contemporaneamente.
Ciò è per definizione contrario ai principi omeopatici, secondo i quali è soltanto un rimedio che corrisponde al quadro sintomatologico del paziente.
Diversamente salta l’utilità della sperimentazione clinica sul sano che invece fornisce la banca dati dalla quale l’omeopata attinge per riconoscere l’espressione dei sintomi sul malato.
Al di là dell’eventuale efficacia a breve termine, è provabile che la rimozione di sintomi con l’uso complesso di rimedi non opera allo stesso livello di profondità del rimedio unitario e pone le premesse per una facile riespressione dello stesso sintomo o di correlati sintomatologici spesso più gravi.
Tossicodipendenza ed omeopatia
Se la tossicodipendenza è legata al disagio ed il disagio investe tutta la persona nella sua globalità e nei suoi aspetti ontogenetici, allora la medicina omeopatica sicuramente avrebbe da offrire qualcosa di efficace all’approccio alle tossicodipendenze.
Nella mia personale esperienza ho pensato molte volte a quanto potrebbe essere utile la medicina omeopatica in un argomento che viene, secondo le nostre abituali tendenze, quasi isolato dal contesto della persona, come se si creasse ancora una volta uno scomparto della patologia in cui riversare anonimamente una massa informe che invece corrisponde a persone, nomi e cognomi, situazioni e dinamiche evolutive.
Le storie che conducono alla tossicodipendenza sono storie di persone e non di sostanze. Al centro vi è sempre la persona.
Quindi ancora una volta occorrerebbe un algoritmo diagnostico altamente flessibile per non sacrificare nessuno degli aspetti utili per comprendere la reale storia che conduce all’alienazione del mondo della droga.
Personalmente ritengo che la medicina omeopatica, pur possedendo enormi potenzialità, abbia davvero bisogno di un valido aiuto di una serie di altre figure professionali atte a contenere prima di tutto i momenti di vuoto assistenziale che si creano ineluttabilmente attorno al tossicodipendente e che ne non consentono un allontanamento sufficiente dalla sostanza tossicomanigena, prima che un eventuale rimedio possa espletare dei cambiamenti nelle modalità reattive del soggetto.
In tal senso, purtroppo bisogna confrontarsi con la valenza farmacologia delle sostanze impiegate che ovviamente “sgretolano” ad ogni riassunzione la consapevolizzazione della persona, rispedendola probabilmente lì da dove era partita.
Sicuramente l’azione di un rimedio ben indicato promuove dei meccanismi di svincolo nei confronti della droga, ma penso che senza adeguato supporto psicologico ed un’adeguata sorveglianza, “il fuoco” dilagherebbe” prima che l’incendio possa essere raggiunto dall’acqua.
Dal punto di vista diagnostico, esiste la possibilità di associare un biotipo costituzionale, miasmatico e neurotimico alla facilità per tossicodipendenza.
L’interesse scientifico di questi aspetti non è parallelo alle implicazioni in termini di successi terapeutici, a causa delle considerazioni che ho già svolto.