Rassegnazione, riflessione ed impegno sociale

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Rassegnazione, riflessione ed impegno sociale

Tutti sappiamo che la vita è segnata da improvvise vicende di dolore legate al verificarsi di situazioni impreviste in cui accade di tutto: incidenti, aggressioni, omicidi, suicidi, attentati, gesti violentissimi ed inauditi di ogni genere.

A fatti accaduti, la reazione più immediata è spesso la rabbia, lo sconcerto, poi la rassegnazione. La reazione ha un suo picco acuto seguito da ulteriori fasi sino all’assestamento, proprio come in un terremoto.

Tutto ciò è naturale, umano e comprensibile. Talvolta vengono ricostruite le situazioni che possono aver generato l’espressione acuta ed apparentemente incomprensibile dei gesti. Sempre, in questo caso, è possibile individuare degli antefatti che, col senno di poi, avrebbero permesso di evitare l’atroce accaduto.

Comunque, nella migliore delle ipotesi, la reazione definitiva più sana e conveniente risulta essere infine la rassegnazione, facilmente sublimata in eventi commemorativi, celebrativi e di preghiera.

Tutto ciò è utile e bello, ma nella maggior parte delle circostanze è inutile ai fini dell’evitamento della ripetizione di altri fatti simili.

La rassegnazione finisce per essere una specie di inventario della vita che però non ha il tono necessario per porre in essere atteggiamenti propositivi e di valore preventivo.

Quando muore una persona in circostanze poco chiare, è abituale effettuare l’autopsia, per ricostruire i meccanismi ed eventuali responsabilità. Perché non si fa la stessa cosa con le situazioni?

Gli accadimenti sono come piante che non crescerebbero se non nell’ambiente giusto, sono il segno che ci troviamo in un ambiente di un certo tipo. La presenza di certe piante indica la natura del terreno ed una serie precisa di caratteristiche.

Il botanico sa molto bene certe cose, come il sociologo sa che i comportamenti sono soltanto la parte visibile di un vasto bacino di caratteristiche sociali.

La rassegnazione e la preghiera sono utilissime, ma potrebbero non bastare se si fermano a consolare e non invitano alla riflessione, se non collocano l’accaduto nel contesto di un’osservazione scientifica che consente di capire quali caratteristiche del “terreno” hanno reso possibile il gesto.

Il responsabile di un gesto folle viene assicurato alla giustizia, relegato, isolato, affidato a percorsi che in qualche modo lo rendono invisibile, se non per gli schiamazzi mediatici.   Molti di questi crimini alimentano servizi giornalistici e trasmissioni televisive e sembra quasi che, in qualche modo, il fatto di cronaca venga alla ribalta e generi una sorta di notorietà.

Questa notorietà a che cosa si riferisce? Alla persona che ha compiuto il gesto, all’accaduto, alle vittime, a chi piange un lutto, a chi segue le indagini e compie gli accertamenti? Siamo sicuri che non manchi nulla?

Io penso che spesso manchi l’analisi retrospettiva delle situazioni che hanno reso possibile l’accaduto, un’analisi precisa, profonda, meticolosa, che  consenta di capire i meccanismi e che serva per svolgere una reale azione preventiva.

Forse la migliore fonte per raccogliere informazioni utili di tipo preventivo è proprio chi ha commesso il gesto, oppure le persone molto vicine che conoscono tanti dettagli del suo comportamento e della sua vita.

I responsabili andrebbero interrogati non solo per accertare le loro responsabilità, ma anche e forse soprattutto per consentire loro di spiegare che cosa, ad un certo punto, è accaduto dentro il loro cervello, che cosa li ha spinti alla ricostruzione paranoica che li ha condotti al gesto. Questo tipo di ricostruzione potrebbe essere utilissima per dissuadere altre persone che si stanno avviando nella stessa direzione, per consentire ai responsabili di effettuare realmente un viaggio dentro la propria responsabilità e potersi ravvedere, che è l’obiettivo ultimo delle pene detentorie.

Non solo: io penso che molte persone, quando hanno appreso di alcune tragedie, hanno pensato nel loro cuore che forse avrebbero potuto evitarle con una propria azione intelligente e volenterosa. Veniamo ad un capitolo delicato: quanto di ciò che accade è soltanto colpa di chi commette un gesto estremo?

Un suicida ha spesso chiesto aiuto e non lo ha ricevuto. Qualcuno aveva notato che aveva bisogno di aiuto, ma per vari motivi non glielo ha fornito.

Un omicida ha chiesto giustizia ed è stato ignorato, oppure è stato ripetutamente vittima dell’ingiustizia.

Un incidente era stato indicato prevedibile da qualcuno, che però non è stato ascoltato da nessuno.

Un attentatore poteva avere una storia drammatica nella sua vita o poteva far parte di una frangia sociale perseguitata ed ignorata da un sistema sociale prepotente e violento.

Un aggressore può avere un retroterra emozionale e culturale che è il frutto di un comportamento globale della società e che giunge a materializzarsi in lui solo perché trova un canale più facile di deflusso.

Non vi è bisogno di dire la solita frase, per cui non sono giustificabili certi comportamenti. E del terreno chi ne parla?

Ogni evento può essere compreso meglio soltanto se ci si alza in volo e si esamina il panorama dall’alto. La visione d’insieme è molto più utile di quella che deriva da un coinvolgimento troppo personale nella vicenda.

E’ difficile che questa considerazione  alberghi comodamente nell’animo delle persone, anche se da qualche parte, dentro di noi, tutti sappiamo che nulla di ciò che accade è veramente estraneo a noi sia come causa che come effetto.

Le responsabilità oggi sono sempre più frammentate, ma questo deriva da una pedagogia assicurativa che ha distorto il reale senso della rassegnazione e l’ha spostato in momenti e circostanze dove occorrerebbe condurre analisi precise che non sono possibili se ci si rassegna.

L’invettiva ad personam non solo rischia di essere una ennesima forma di violenza che rientra nella spirale autoalimentantesi, ma può sviare dall’individuazione dei reali meccanismi che occorre rivedere per evitare che nuovamente si verifichino situazioni non auspicabili e dolorose. Insomma, servono meno personalismi e più analisi globali.

Nel caso di persone che si sono macchiate di reati gravissimi, potrebbe essere una “giusta punizione” ed un’occasione catartica consentire loro di esporre pubblicamente i motivi che li hanno condotti a porre in essere i crimini. Le persone hanno bisogno soltanto di crescere e di capire, meno di rassegnarsi inutilmente e più di indignarsi per la giusta causa che determina i mille rivoli di comportamento individuale.

Per esempio, nell’ambito dell’accertamento delle responsabilità di qualunque genere, sarebbe meglio studiare  i deficit di coordinazione sociale,  che inveire ripetutamente sui mal capitati che sono individuabili come responsabili.

Per quanto riguarda i reati sessuali, infieriamo su alcune persone per la loro condotta sessuale, ma non affrontiamo il grande tema della abnormità  della nostra cultura sessuale globale.

Per quanto riguarda il mondo dei reati finanziari, distruggiamo esseri umani, spingendoli anche al suicidio, ma non vediamo che sono le prime vittime di un sistema economico che ha sempre meno di umano.

I reati politici sono demonizzati, ma non siamo in grado di riconoscere la disarmonia dei nostri stili politici abituali.

Una serena valutazione dei reati non dovrebbe prescindere da una metanalisi retrospettiva e disingannata delle atmosfere culturali ed emozionali in cui i reati germinano spontaneamente.

Di chi è il compito di fare tutto ciò? Di tutti, ma dopo essere stati educati a farlo dalle figure totem del nostro contesto, giornalisti, psicologi, sociologi, docenti, forze dell’ordine, magistrati, sacerdoti e tante altre figure, ma soprattutto dagli agonisti dei misfatti che andrebbero posti nelle condizioni di raccontarli e di potersi redimere.

In fondo, il motivo per cui la pena di morte non è accettata è proprio del genere delle considerazioni che stiamo svolgendo. L’umanità dovrà smetterla di puntare il dito accusatore e dovrà imparare  ad assumersi le responsabilità in modo meno personale ma non per questo meno duramente.

Forse può essere più duro svolgere un lavoro poliedrico di responsabilità, che accanirsi sempre sui singoli.

La visione di cui sto parlando può sembrare troppo astratta e poco pratica, ma anche quando si chiama un consulente industriale per ottimizzare un processo produttivo, il primo impatto è dello stesso tipo, ma poi seguono risultati straordinari col tempo.

L’essere umano tende alla miopia, nonché alla frammentazione, ma come esiste il fascino della divisa, dovrebbe esistere anche il fascino di una divisa invisibile fatta di considerazioni che si vedono responsabili in toto e non tanto per ciò che abbiamo commesso, ma soprattutto per tutto quello che non facciamo!

La rassegnazione e la pazienza sono un po’ come la frizione, mentre la riflessione, l’azione e l’impegno sociale sono come l’acceleratore. Occorre miscelare sapientemente i due comandi.

Questo articolo, scritto diversi anni fa, si applica bene alla triste vicenda del Carabiniere ucciso a Cagnano Varano, in data 13 aprile 2019, come è stato per tante altre tragedie simili.

 

 

4 COMMENTI

  1. due sole riga non bastano per commentare un argomento tanto attuale, ma per il quale la società in cui viviamo quotidianamente è così indifferente…. quella della Autopsia degli accadimenti è veramente qualcosa che manca, poichè riuscire a comprendere lo stato d’ animo della Persona che in quel preciso momento della sua Vita era vissuto, non è facile…e credo ci siano pochissimi Psicologi all’altezza di mettere a fuoco i meccanismi mentali che portano alcune persone a compiere atti di Violenza…nel nostro vivere siamo un pò tutti come la Frizione, dovremmo invece essere di più come l’acceleratore…dare gas al momento giusto… Complimenti per l’articolo

  2. La rassegnazione e la pazienza sono un po’ come la frizione, mentre la riflessione, l’azione e l’impegno sociale sono come l’acceleratore. Occorre miscelare sapientemente i due comandi……e la malattia di mia figlia cos’è dottore…..dimmelo tu…inguaribile croce x me…..

  3. Quella di Salvatore non è un’analisi, ma un’espressione, dall’interno della sua grandiosità intellettuale, della sua lotta per aprire varchi attraverso i quali poter riversare sul terreno della cultura ciò che essa non vuol recepire perché lo ha relegato nel tabù. Salvatore, con garbo in realtà guerriero, ci scaglia davanti agli occhi un pezzo della società civile che non diverremo se non adempiremo a ciò che dice. Un parlare che è lotta per costringere la società a vedere perché la sua chiave interpretativa del male come effetto di cause, e non come fintamente ‘inspiegata’, mera ‘malattia’ individuale, cambierebbe i rapporti di forza fino, si potrebbe dire, ad aprire le porte del carcere, prima che ai rei, alle Istituzioni ed ai giudici. Giudici, non solo di tribunale, i quali fanno contemporaneamente di tutto perché le reità non possano che esistere e per censurarle per alimentare così il ruolo che il moralismo gli ha assegnato. Gino Marra

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