Perché: ombre e luci, al servizio del cambiamento, nel terzo millennio.
Riassunto (executive summary)
Quando alcuni problemi persistono, probabilmente è sbagliata, non solo la percezione che si ha del problema, ma soprattutto la rassegna delle soluzioni che, specie nell’abitudine, perpetuano i problemi stessi.
Occorre cambiare prospettiva di osservazione, ma per fare ciò, occorre conoscere i meccanismi che governano l’iter da una causa ad un effetto e, quindi, la possibilità di intervenire, con successo, e risolvere il problema che alimenta i problemi.
Al centro di tale delicata questione, vi è il senso che abbiamo perso la capacità di attribuire al dolore, vi è il recupero del senso di un apparente limite, il dolore, per conquistare uno stile ed un ritmo, non solo per non soffrire più, ma, soprattutto, per non privare di importanza tutto il dolore che, ineluttabilmente, l’Umanità ha provato, prova e proverà.
Anche se non è immediata la comprensione del loro ruolo, in questa dimensione evolutiva importantissima per gli esseri umani, occorre che i Medici, che hanno i mezzi per comprendere, scendano in campo, in modo illuminato, ed insegnino a risolvere, veramente, le situazioni che hanno permesso tanto dolore inutile.
Si passa, allora, dal perché al come, si passa dal riconoscimento di un problema, finalmente, all’azione giusta per risolverlo.
Di questo abbiamo bisogno, in ogni settore della nostra vita, ma, con urgenza, nella gestione della vita pubblica, a livello politico, culturale e, gestionale, del diritto di essere felice di ognuno di noi.
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Un‘umanità in preda ai problemi, la solitudine, l’insoddisfazione, l’incapacità di operare scelte che conducano all’eliminazione del motivo dei problemi.
Ogni volta che si soffre, vi è un problema, non risolto, dietro alla questione, ma, ogni volta che si continua a soffrire, vuol dire che il problema continua a non essere risolto. Perche? Perché non si è riconosciuto il problema?
Spesso si dice che, senza aver fatto diagnosi, non è possibile risolvere un problema. La diagnosi è un procedimento conoscitivo che conduce all’individuazione di una categoria di problemi e consente di riconnettersi agli strumenti per intervenire favorevolmente.
Come quando stiamo scrivendo un testo con nostro PC, succede spesso, all’inizio, dopo essersi seduti alla scrivania, di voler scrivere delle frasi, usare le punteggiature, ma ciò risulta inizialmente difficile, perché il tocco dei tasti, l’attenzione alle dinamiche della stessa battitura sono come arrugginite….poi si riesce a scrivere più fluidamente, finché le mani volano e le pagine si materializzano sotto i nostri occhi, in successione sempre più veloce. E’ un problema di concentrazione, un problema di connessione fra la nostra interiorità ed il movimento delle mani, di trasferimento del nostro pensiero alla grafica del testo, cui stiamo affidando il compito sacro di veicolare l’oggetto degno di essere comunicato.
Ogni volta che una persona sente il bisogno di scrivere qualcosa, un miracolo sta accadendo, si esce dal proprio individualismo, e si vola verso un etere comune di connessione profonda, che è la stessa evoluzione possibile dell’umanità, verso forme condivise di pensiero, che servono a diminuire i motivi stessi per cui siamo costretti a confrontarci con i problemi.
Quando una persona decide di comunicare, necessariamente, si guarda attorno ed usa degli strumenti, ad esempio, una lingua, che, però, deve aver imparato ad utilizzare. Nel percorso di acquisizione del linguaggio, vi sono molte fasi, che decrescono col tempo, ma, finché non sono superate, rallentano e rischiano di impedire le modalità stesse del linguaggio, della sua efficacia.
Stiamo parlando del come, il come, sì, di come si fanno le cose. Tutti vorremmo fare delle cose, ma occorre imparare come le cose vanno fatte.
La diagnosi, il riconoscimento di un ambito dimensionale pragmatico, entro in quale far rientrare l’origine stessa di un problema, è tutt’uno con le modalità applicative per rimuovere il problema.
Quando, più persone, associate in una dimensione comune, come quella sociale, vivono dei problemi, l’unico sistema per risolverli è che vi sia un entanglement, un intreccio risonante, per diminuire le variabili esterne ai limiti dell’individualità cosciente.
Voglio dire che, qualora un numero talmente alto di persone fosse in possesso delle soluzioni applicative per superare un problema, il problema non avrebbe più motivo di esistere. Quindi il problema esiste perché un numero molto alto di persone è privo della soluzione. Questa condizione crea una situazione, apparentemente impercettibile, che alimenta il problema e ne rende poco probabile la soluzione.
La probabilità è un concetto statistico, ove la casualità viene ricondotta ad un ordine, che viene indicato dall’osservatore. Cambiando l’osservatore, cambiano gli schemi e cambia persino il riconoscimento del problema nella sua obiettività, se mai questa ammettiamo che esista.
In poche parole, è ipotizzabile che una condizione, rappresentante un problema per alcuni, non lo sia per altri, per altri sia, addirittura, un vantaggio. E’ una questione di prospettiva, dalla quale si è in grado di osservare “la cosa”.
Tale disomogeneità di vedute è fonte del perseverare di ciò che, soltanto alcune persone, riconoscono essere un problema. Potremmo tenere a digiuno per settimane le persone? Sicuramente no, perché si avrebbe, ben presto una reazione anche violenta, che, in qualche modo, cambierebbe la situazione e risolverebbe il problema.
Vi sono molti tipi di problema, per esempio, alcuni non sono un problema, pur generando numerosi problemi. Quando un problema non è riconosciuto da alcuni, e genera dolore a tutti, anche la parte che avrebbe il sistema per risolvere il problema, continua a soffrirne e, anzi, trova l’opposizione degli altri, gli ignari, che operano in modo da alimentare il problema.
Come si fa a riconoscere i problemi? Quale è il sistema più obiettivo che potrebbe aiutarci nel riconoscimento di un problema?
Si tratta, paradossalmente, di un problema, quello di cui stiamo parlando, che riguarda tutti, quindi, sia coloro che pensano di non avere dei problemi, sia quelli che individuano dei problemi, ma che, in vario modo, e per varie ragioni, non riescono a liberarsene.
Il problema principale è di chi si ostina a credere che i problemi non esistano, opponendo tutta una serie di forze che ovattano la percezione dei problemi da parte di chi riesce a riconoscerli.
Tutto questo discorso, che potrebbe sembrare una inutile elucubrazione, quasi di stile retorico, non è, in effetti tale, nella misura in cui si è disposti a volersi cimentare per la soluzione di un problema.
Vorrei ricondurre tutto quanto, sin’ora detto, ad un sistema di concetti formanti, per risolvere problemi, ma, nello specifico, in quanto sollecitato dall’osservazione dell’andamento delle cose nel vivere sociale, vorrei portare l’attenzione ai motivi per cui, nonostante il malcontento comune, evincibile, ogni volta che si interroga una persona sulla sua qualità di vita, è, altrettanto evidente, che dai problemi non si esce e si continua a soffrire.
Esaminiamo, ora, quali sono i meccanismi che, generando dolore, inducono, nel contempo, a cercare la soluzione per evitare di continuare a soffrire. Per esempio, se una mano tocca qualcosa di troppo caldo, si stabilisce, automaticamente, una dinamica motoria, tesa ad allontanare, anche fulmineamente, la parte del corpo che, diversamente, andrebbe incontro ad ustione. Però, comunque, se il movimento fulmineo determinasse l’urto del gomito contro una punta acuminata, ciò sarebbe un altro tipo di danno, diverso dall’ustione, ma ugualmente considerevole…e si potrebbe continuare. E’ il modello che giustifica il vecchio detto:”Dalla padella, nella brace”.
Insomma, il dolore è ineluttabile, se mancano i meccanismi per individuarne il suo itinerario. Oggi, a me, l’Umanità appare in queste condizioni, senza strumenti per riconoscere i meccanismi che generano dolore, in una sorta di stato confusionale, che alimenta i mille rivoli che convogliano in un grande fiume di sofferenza generalizzata.
Il lamento, spesso emesso, come segnale di dolore, non basta a cambiare le cose, e nasconde, nella sua reiterazione, un insidioso meccanismo per non riuscire a porre fine ai processi che sono alla base del dolore.
Come il lamento, anche un altro comportamento isterilisce il motivo stesso che lo ha generato: è l’approvazione ripetuta, dimostrando di avere capito, enfatizzando la comprensione stessa, rendendola eccessiva, chiassosa, dimostrativa, plateale e, impegnando tanta energia in ciò, fino al punto di non averne più, per fare silenzio ed elaborare strategie risolutive.
Molti dei movimenti, persino rivoluzionari, che caratterizzano la nostra società, nel momento in cui qualcuno trova la forza, per eruttare una qualunque protesta, sono caratterizzati da tale forma di vacuità, di inconcludenza, tutta tesa a giocare con l’eco che si genera, senza, però, porre in essere cambiamenti efficaci sia per significato che per tempi in cui il cambiamento dovrebbe realizzarsi, per condurre ad una condizione di benessere, che è lo scopo principale del tutto.
Prendiamo, ora, un sentiero, che conduce ad una veduta nascosta alla maggior parte delle persone. Si tratta di una via, lungo la quale si odono suoni strani e complessi, che riecheggiano di urla di dolore, ma anche dei Tamburi della vita, al centro della giungla, mentre “didgeridoo”, sacri, rievocano il mistero della Felicità.
Il dolore serve a comprendere gli errori, ma gli errori vanno riconosciuti, per poter essere utili al superamento dei vortici che ci portano al centro dei motivi contro la nostra felicità.
Il dolore è un ambito molto evoluto della differenziazione della specie, per porre la coscienza nelle condizioni di rimuovere gli ostacoli alla felicità.
Però, viviamo nell’epoca dell’analgesia, un mondo che non vuole il dolore, che non lo accetta, che ne vuole paralizzare la percezione, ad ogni costo, e che non consente di individuare i nessi fra comportamenti errati e situazioni dolorose.
Questo mondo si è venduto anche ai padroni, che illudono le persone, promettendo l’assenza di dolore, e presentandola come obiettivo da perseguire, mentre, la verità è che il dolore non può essere evitato, ma soltanto compreso, per usarne la sua utilità evolutiva e riscattare, veramente, l’Umanità da un futuro sempre più nero, riscattandola, definitivamente, dall’attuale schiavitù.
Alla base, nella sua banalità, del meccanismo che ottunde la percezione del dolore, e quindi dei suoi motivi, vi è la maledetta abitudine di assumere analgesici per ogni motivo, anche il più sciocco. Si tratta di una vera e propria mutilazione, sempre più incoraggiata, che abbassa la capacità di autocoscienza della gente, e ne rinforza comportamenti autolesionistici.
In fine, non si è più in grado di riconoscere ciò che ci fa bene e ciò che, invece, ci fa male. Siamo all’olocausto dei sensi, siamo al piattismo percettivo e cognitivo, siamo nella palude, ove non si riconoscono più le acque che arrivano e quelle che vanno via, i motivi ed i risultati.
In tale contesto, non vi è più una funzione lineare che lega i processi, e si entra nel qualunquismo e nell’agnosticismo, ma anche, e soprattutto, in una forma, mortale, di anestesia, che ci priva della possibilità di difenderci.
La difesa dipende dalla diagnosi, la diagnosi dipende dal dolore, il dolore dipende dalla nostra integrità di sensi, i sensi vanno custoditi, con una cultura che valorizzi ciò che sto spiegando.
Perché i nostri movimenti siano efficaci, ed abbiano tutta la validità, evitativa, per consentirci di rimanere vivi e difendere l’integrità della nostra esistenza, occorre avere una “cultura” della comprensione del dolore.
I Medici, e tutti i comportamenti medici, anche, e forse, soprattutto, quelli affidati all’automedicazione, pur sempre ispirati ad atti medici, di cui i medici sono responsabili, hanno, dunque un potere inimmaginabile, nel determinare il destino dell’Umanità, alle soglie del terzo millennio, l’epoca del cambiamento, l’epoca in cui, parallelamente al dolore, dovrà aumentare la comprensione dei suoi motivi. Diversamente, potremmo essere, ormai irrimediabilmente, diretti all’autodistruzione.
E’ impressionante vedere a quale punto di mancanza di reazione utile siamo arrivati: le persone, nemmeno sperano, che la vita possa essere diversa. Strisciano in un quotidiano inerme e rassegnato, che, difficilmente, apre spiragli a visioni alternative e coraggiose, per cambiare il corso delle Storia.
Nel frattempo, alcuni di noi, forse malati, guidati da logiche disumane, sempre più evidenti, continuano ad incutere timore e ad infliggere punizioni orrende e ingiustificate alle persone, che, nel tentativo di illudersi che tutto e normale, continuano, anche con la loro indifferenza, a consentire la schiavitù.
Ai tempi della schiavitù dei Neri, la moltitudine di essi non riusciva a identificare, prontamente, la possibilità di ribellarsi, come è accaduto nei campi ci concentramento e in altre situazioni analoghe.
Occorre saper immaginare una realtà diversa, per poter superare quella attuale, per potersi riscattare, nella propria dignità di esseri umani e creature aventi diritto a vivere, felicemente.
Quando l’analgesia prende il sopravvento, “non spostiamo più, in tempo, la mano dal calore” ed avanziamo verso un rinforzo dei meccanismi che ci tengono sempre più immersi nella vessazione ed anche nella irresponsabilità, specialmente quella verso i nostri figli, che attendono, da noi, la versione migliore possibile del Mondo e della Vita sul Pianeta.
Queste righe potrebbero servire, nella misura in cui riuscissimo a mutare le tendenze attuali, basate, lo ripeto, sull’incoscienza dei motivi del dolore e, quindi, riuscissimo a riacquisire o acquisire, come non mai, un livello di logica decisionale, adeguata alla reale pericolosità degli agonisti del disturbo.
Che poesia.
La maggior parte delle persone, me compreso, vanno a letto sperando in un domani diverso dal giorno precedente “sempre per chi un letto c’è l’ha ancora “; invece ci rialziamo al mattino come se nulla fosse cambiato, sembra quasi come un riavvolgimento del nastro, e, così inizia nuovamente un altro calvario: “sopravvivere invece di vivere”.
La vera radice del problema, è la rassegnazione a questi individui che ci spremono fino all’osso, e ai quali nessuno è in grado di reagire.
Non si riesce più ad immaginare un futuro migliore; un grande come Einstein diceva “l’immaginazione racchiude un mondo “.
Dalla Politica alla Farmaindustria, non più uomini che guardano agli uomini, ma Tiranni che godono guardando popoli estinguersi.
il terzo millennio ci chiama, sforziamoci con tutte le nostre forze ad attuare cambiamenti Interiori che contribuiscano a migliorare il nostro vivere e quello delle persone, non solo di quelle vicine a noi, ma di tutte le anime che incontriamo nel nostro cammino di Vita… rimbocchiamoci le maniche e spendiamoci.
con immenso riconoscimento per quello che tutti i giorni fai per tutti noi…. un abbraccio da Nik