La diagnosi dei limiti diagnostici
L’esercizio della professione medica, sul selciato dei primi passi del terzo millennio, continua ad essere caratterizzato da una discreta dose di opinabilità. Cioè, le occasioni in cui decidere quali criteri di diagnosi e di terapia sarebbe più opportuno utilizzare sono molte. Ciò arreca non poca confusione, dato che, prima di intraprendere scelte di comportamento, si tratta di accordarsi anche sugli stili con cui assumere i modelli, prima di usarli.
La molteplicità di percorsi specialistici, insieme alla capillarizzazione dei metodi, ha fatto perdere la visione d’insieme, ma ciò ha un costo, soprattutto, quando sarebbe utile una zummata, per riprendere le distanze da un problema, al fine di verificarne la congruenza degli approcci.
Il problema principale è quello di scegliere quali elementi prendere in considerazione, quando ci si dispone all’atto diagnostico. A seconda degli strumenti che impieghiamo, possiamo giungere a conclusioni anche molto divergenti.
La diagnosi potrebbe essere libera quanto mai, ma la diagnosi del medico è sempre legata, di più ai limiti che ai mezzi a disposizione. L’errore è fondamentalmente di tipo omissivo, quando si voglia considerare l’ampiezza possibile delle situazioni che potrebbero rivelarsi agli occhi dell’osservatore.
Comunque, occorre che il medico si chieda di quale capacità diagnostica sia il metodo che sceglie di usare. Spesso, in medicina, si pongono diagnosi descrittive che pongono in evidenza la presenza di novità morfologiche e/o funzionali. Vi è da chiedersi se una diagnosi di tale tipo è sempre sufficiente per poter decidere che cosa fare e quali comportamenti tenere in seguito.
La presenza di un polipo intestinale può essere di scarso rilievo, se non si identificano abitudini di vita, per esempio alimentari, che hanno determinato la comparsa della manifestazione diagnosticata.
Così come è di scarso rilievo che il polipo sia asportato, se non si prende in carico la situazione globale ed energetica della persona.
Uguale perplessità resta sulla scansione temporale opportuna, da rispettare per la ripetizione delle indagini tese al monitoraggio dell’andamento della situazione. Infatti, tale intervallo da rispettare, per la verifica di eventuali recidive, potrebbe, teoricamente allungarsi, se si correggono i fattori che hanno favorito l’espressione del disturbo. Al contrario, persistendo gli errori che hanno generato il problema, potrebbe essere più indicato ripetere gli accertamenti più spesso, ma ciò, col tempo, finirebbe per vanificare la loro stessa utilità.
Insomma, è usando un metodo sbagliato che possiamo davvero capire l’errore. Ma quanto è legittimo lasciare al singolo medico le decisioni che poi ricadono sulla vita del paziente?
Che cosa legittima l’agire medico, l’abitudine dei protocolli o la dovizia delle alternative?
Il sistema consolidato, intrecciato con le abitudini e gli interessi, tende a consolidare gli eventuali limiti legati allo stato dell’arte, mentre impedisce di riconoscere tempestivamente i problemi connessi con la pratica corrente.
E’ come se la verità fosse sospesa, a mezz’aria, alle nostre spalle, ma per vederla, dovessimo, necessariamente saperci voltare, nel momento giusto, per poterla guardare.
Quali sono gli elementi che certificano gli stili di comportamento di un medico? Generalmente, sono quelli che si evincono dai protocolli, i quali sono, però, intrinsecamente tutt’uno con gli orientamenti che le terapie impiegate prevedono come caratteristiche diagnostiche.
Il percorso dalla diagnosi alla terapia non è come la tratta ferroviaria da una località ad un’altra. Esistono degli antefatti che paiono essere utili come spunti diagnostici, ma, soltanto il viaggio, disilluso, senza rigidità strutturali di pensiero, può condurre al riconoscimento di livelli diagnostici più profondi ed efficaci.
Le tappe dei protocolli sono piene di sicurezze, ma, in proporzione alle sicurezze, diminuiscono le varianti che rendono possibile l’accesso a livelli più avanzati di conoscenza e consapevolezza diagnostica.
Nello svolgimento della professione, si delineano, ben presto, alcune abitudini, che servono a velocizzare i procedimenti, e a renderli omogenei e quindi rassicuranti nella loro ripetitività, ma dobbiamo riconoscere che, in molti casi, tali automatismi non sono sufficienti a garantire il successo, come possono impedire di raggiungere traguardi inimmaginabili.
In questi casi, dovrebbe essere spontaneo chiedersi se i mezzi impiegati sono i mezzi giusti e non sono soltanto i mezzi che ci siamo abituati ad usare.
Il miglior mezzo non è sempre quello che siamo abituati ad usare. Talvolta, rimanerne privi ci spinge ad individuare strade nuove. Quando ciò accade, successivamente, non torneremmo indietro, per nessun motivo.
I nuovi mezzi non sono mai estranei a nessuno di noi, ma lo sono, semplicemente, alla maggior parte delle nostre abitudini. Quando un nuovo mezzo viene impiegato, è come se, finalmente dessimo corpo ad una parte di noi che stentava ad esistere.
Non dovremmo mai irrigidirci di fronte alle possibilità che emergono in chiunque di noi, perché esse non sono soltanto di uno di noi, ma si affacciano all’Umanità, tramite un percorso individuale, che diviene rappresentativo di un divenire possibile, a disposizione di tutti. In tal senso, ognuno di noi dovrebbe sentirsi responsabile di aver agevolato, oppure scoraggiato, un processo di evoluzione.
Sono piccole le differenze che corrono fra gli esseri umani, quando vengono osservati al di fuori dei propri ruoli sociali, della loro importanza e della loro carica, che li renderebbe, invece, irraggiungibili.
Si visita “accanto” ad altre possibilità di incarnare le stesse finalità, che sono una diagnosi ed una terapia. Se soltanto sapessimo quale diversità potrebbe esserci fra il modo usato e quello che potremmo usare, entreremmo in crisi.
Quanti pazienti ai quali abbiamo tolto organi, li avrebbero ancora e questi sarebbero ridiventati sani? Quante proposte terapeutiche non avremmo mai posto in essere, se avessimo pensato in modo diverso?
Tutte le volte che una terapia potrebbe essere diversa, si intuisce che un vuoto culturale conoscitivo ci ha preso la mano e ci ha impedito di diversificare l’approccio ai problemi.
Dobbiamo considerare anche l’autoterapia, quella che le persone introducono fra gesti quotidiani, senza pensare a che cosa vanno incontro con le loro abitudini. Per esempio, quando si è pronti ad assumere un qualunque analgesico, per ricondurre all’ordine un dolore o fastidi di vario genere.
La soppressione di qualunque disturbo è, per definizione, la rinuncia potenziale a volerne individuare le origini. La diffusione di tale modo di fare, fiacca la salute delle persone e nasconde gli itinerari di malattia, che bisogna aver chiari per rimanere in salute.
Molte sono le responsabilità che rendono possibili i fraintendimenti di cui stiamo parlando, ma di cui pochissimo si parla, perché non conviene agli interessi consolidati, perché si è formati alla superficialità e abituati ad accontentarsi di poco, pensando di avere di più.
La migliore forma di salute, e quella più economica, dipende dalla conoscenza dei meccanismi che proteggono la salute. Può un sistema sociale farsi carico di un indotto informativo in tal senso? Si, nella misura in cui si è liberi!
Tale libertà non può esserci in ampia gamma e a vasto raggio, bensì è come un frutto in cattività, che può essere esteso al “resto del mondo”.
Bisogna che qualcuno si assuma la responsabilità di sondare nuove strade e che conduca anche un lavoro per provare che un sistema nuovo possa essere conveniente, nell’interesse di tutti.
L’interesse, che non è soltanto il beneficio psicofisico per la comunità, assume, talvolta, connotazioni distorte e si infila in ambiti che alludono a pseudo-sicurezze finanziarie tese a garantire gettiti di soldi a gruppi ristretti che hanno comunque creduto, in alcuni momenti, di poter svolgere un ruolo di utilità sociale anche molto benemerita.
Ebbene, anche questo tipo di interesse può essere permeato di una nuova etica e di codici informativi che puntino a perseguire obiettivi non lontani da un reale miglioramento delle condizioni sociali dell’umanità.
Non credo che vi possa essere solo una finanza speculativa, ma sono fermamente convinto che la finanza possa, anche e sempre più, soprattutto essere di tipo propositivo, per consentire opere di rilievo e traguardi in termini di salute e serenità per tutti.
La speculazione finanziaria finisce quando l’uomo ritorna a interrogarsi sui grandi temi della vita.I grandi temi della vita interessano sempre qualunque persona, qualunque ruolo essa abbia svolto.
E’ questa una visione ottimistica, che consiglio a coloro che sono anche costretti a lottare per un miglioramento delle condizioni globali sul pianeta. Senza questa disposizione d’animo, non riusciremo mai a coinvolgere di più nemmeno coloro che riteniamo già vicini ai nostri ideali.
Lo scoraggiamento che interviene quando si vede la durezza del cuore di alcuni può essere superato solo con la speranza, che va comunicata prima di tutto agli antagonisti, per non doversi rimproverare di non aver fatto di tutto per evocare in loro le migliori scelte possibili.
Infatti, non avremo mai fatto abbastanza sinché non avremo comunicato tutta la nostra speranza a tutti.
La speranza è contagiosa ed è capace di abbattere resistenze enormi, che non è possibile superare con altri sistemi. La speranza è più potente persino della logica, alla quale ci rimettiamo, quando pretendiamo di avere ragione, dimenticando le ragioni del cuore.
La speranza è di competenza di aree cerebrali che non interagiscono con le altre se non con la forza dell’amore.
Per esaminare i limiti del nostro ragionamento, quindi anche quelli di uno stile diagnostico, occorre, in fondo, solo amore.
L’amore comprende molte altre qualità che sono: pazienza, altruismo, lealtà, umiltà e modestia, senso della comunità.
Gli umani dovrebbero sentirsi chiamati ad un incremento delle opportunità di interazione, per lo scambio di vedute, nell’intento di salvaguardare gli alti scopi dell’esistenza, oltre gli attuali limiti degli interessi personali, in attesa di individuare nuovi interessi individuali, che corrispondano sempre di più al reale bisogno di tutti, nel rispetto assoluto del bene della totalità.
Il modo migliore è sempre quello che non è migliore “solo per me”, ma bisogna che tutti siano disposti a pensarla allo stesso modo, almeno in questo.
Quanto costa operare dei cambiamenti nel nostro modo di fare? Costa molto meno che non farlo e dover poi pagarne le conseguenze, quando sarà troppo tardi.
Fondamentale, e chiudo, è che sia ben chiaro il concetto di grande famiglia, dell’Umanità, che entra in collisione con quello di un gruppo familiare ristretto, cieco verso la verità ed il riconoscimento del valore obiettivo di ognuno di noi.