Sarò breve (esperimento per capire quanto possiamo ancora farcela).
Alcune volte mi fanno notare che gli scritti devono essere brevi, perché le persone non ce la fanno a leggere.
Non ricordo, però, nemmeno una volta in cui, leggendo insieme, qualcuno si sia annoiato.
Non ricordo, nemmeno, che qualcuno non mi abbia ringraziato di averlo coinvolto nei miei pensieri.
Per questo, io ringrazio Voi.
Dedico queste mie riflessioni a tutti, specie a coloro che avranno la pazienza di fermarsi e trovare il tempo di leggersele, anche rinunciando ad alcune abitudini che sembrerebbero non concederglielo.
Dedico, in particolare, senza che mi si rimproveri per ciò, queste righe a tutti quelli che mi hanno conosciuto e che hanno potuto godere della speciale atmosfera che si crea quando stiamo insieme.
Ancora una volta, senza fini personali, soltanto nell’intento di non aver vissuto invano.
L’analisi delle storie delle persone, vista da un medico che raccoglie i contenuti della vita, per cercarvi un filo conduttore, un itinerario in cui le variabili siano tutte firmate da poche indispensabili note spontanee e rilasciate con chiarezza, nel momento in cui si è posti nelle condizioni di poter parlare di sé, tralascia, abitualmente, ogni dettaglio che non appartenga davvero alla persona.
Oggi, però, sempre di più, accade che i dettagli di questo genere entrino nella storia delle persone ed incarnino una specie di fantasma, che non è mai della storia di ciascuno, ma è una condizione comune della storia di tutti.
Com’è possibile che vi sia una storia comune nella storia di tutti? Mah! Capirei la scuola, l’asilo, le materie studiate più o meno abitudinariamente da tutti coloro che entrano nelle righe del contesto sociale, si vestono dei suoi colori, capiscono di capire, come viene loro insegnato, insegnano ad insegnare, come viene loro fatto capire.
Non è possibile uscire dai binari, senza un controllo, che nemmeno lascia liberi di perdere il controllo: una vita programmata, tenuta nel range della prevedibilità, manutenzionata con storie continue di una realtà che viene instillata dentro le persone, come se fossero tutte condannate ad essere uguali. Contribuiscono giornalisti saccenti, presentatori scontati, come ogni figura troppo convinta della propria supremazia identitaria.
E’ un po’ tutto confezionato, così, dentro scatole tutte uguali, che non lasciano vezzi di originalità e non si lasciano andare al sogno.
L’età del mondo concede, negli ultimi decenni della nostra vita, la grande avventura panoramica, attraverso una delle svolte più audaci del vivere collettivo. Telecomandi, telefoni cellulari, social network, terrazze virtuali su vallate che non hanno più l’imperfezione della realtà e privano i viaggiatori del contatto stesso con la realtà. Non si suda più, non ci si taglia più, non è più così facile perdersi e non è consentito parlare della propria fragilità. I bambini moderni non conosceranno la magia che provai io, quando mio nonno, per la prima volta, cambiava canale, premendo dei tasti, comodamente seduto in poltrona. E nemmeno si emozioneranno, perché udranno la voce cara lontana tramite il telefonino per la prima volta nella loro vita.
Una strana forma di perfezionismo aleggia nella trama delle storie quotidiane, di cui non è nemmeno più consentito vantare l’originalità. Infatti, il diritto della diversità è confinato ad una specie di inabilità non riconosciuta dal sistema, che ama i cloni, ed il gioco che li propone come l’unico modello possibile. Come quando, mi era spiegato che non è consigliato iniziare una frase con “ma”, perché la grammatica potrebbe risentirne. Eppure, quale enfasi un “ma” ad inizio frase, che riecheggia di quella spontanea diaspora dalla regola, che conduce al destino di una espressione errante. Uso parole difficili, così bisogna prendere il vocabolario in mano: evviva la crescita!
L’utopia è sempre più indicata come percorso fuorviante e poco saggio, del tipo di quelli che espongono a rischi, come se non fosse già sufficientemente rischioso rimanere ancorati al vivere standard, fatto per non farci vivere.
Torniamo alle visite, ed estraiamo l’immagine di quel fantasma che si insinua nella vita di tutti, che trapela nei racconti e ne appanna la singolarità, per presentarne una forma impersonale, che appartiene a tutti, come a nessuno.
E’ una specie di ombra scura, che offusca il senso stesso della vita, dipinto ancora negli occhi increduli delle persone, afflitte dal vivere comune in una società comune, con regole comuni, con obblighi normali, all’interno di un condizionamento che giustifica quel senso più o meno diffuso di depressione, così scontata, così inderogabile.
Ogni dettaglio della giornata è ispirato alla giusta dose di inutilità, tanto grande quanto piccola, tanto assurda quanto scontata. Uffici, mansioni, premure per la sicurezza di tutti, che nascondono tranelli oscuri, atti ad annichilire la base della vita: il coraggio e la speranza.
Ma, soprattutto, nessuno deve farsi dei dubbi sulla indispensabilità di tutta questa ingessatura, che fa vivere le persone come se fossero incidentate per tutta la propria esistenza.
Una miscela di legalità e perbenismo amalgama i vissuti costretti degli individui, che non godono più del piacere della propria individualità e rappresentano solo entità analoghe, specialmente nel piattismo che scoraggia le obiezioni, che potrebbero essere capaci di attraversare la cortina di omologazione globale.
L’ombra, quel fantasma, che incardina, sempre attorno alla stessa trama, ogni storia di qualunque persona, e si conforma in modo tale da introdursi completamente fra le esperienze personali, in modo tale da convincerle di essere protagonisti di un oscuro destino ad personam.
Di legato al destino, quello della nostra propria strada, non vi è rimasto che il suono della parola, dato che si tratta, ineluttabilmente di un destino comune, cioè di una messa in scena orchestrata, ma anche mantenuta, che si riferisce a modelli inesistenti nella naturalità dell’esistenza.
Una chimera che si ispira al criterio di sopraffazione, avvinto all’ineffabile certezza che non possa essere diversamente.
Ho capito, addirittura mentre sto scrivendo queste righe, grazie all’incontro di un personaggio “importante”, che esistono talmente tante culture, all’interno di ogni sola cultura, e che è così difficile che si rendano omogenee, a causa della naturale indisponibilità dell’essere umano all’ascolto, che, in pratica, non è possibile parlare di una cultura, anche se concedessimo il massimo dell’attenzione ad uno dei vari rappresentanti di una fetta di sapere.
Ognuno pensa di essere depositario, nella migliore delle ipotesi, più che di un sapere, di uno stile per avvicinarvisi. Il che preluderebbe ad un non sapere, dato che occorre riconoscere la propria ignoranza, prima di sapere. Però, avere uno stile, persino nel non sapere, preoccupa, se riflettiamo sull’importanza di essere almeno sicuri di non sapere. Uso espressioni complesse, perché penso che, talvolta, è utile sforzarsi di usare il cervello.
Insomma, esiste una specie di impossibilità atavica, per la maggior parte delle persone, a poter prestare attenzione ad argomenti estranei al proprio percorso conoscitivo, senza lasciarsi condizionare non tanto dalle proprie conoscenze, ma, paradossalmente, dalle proprie non conoscenze. E’ ineluttabile che non riusciamo ad avvicinarci a ciò che non conosciamo, soprattutto per la mancanza assoluta di qualunque strumento per sospendere, almeno temporaneamente, il nostro presunto sapere. Lo stesso dicasi per le occupazioni.
Ecco perché, generalmente, non riusciamo ad apprendere velocemente, e spessissimo, nemmeno lentamente, a causa di una inabilità a fermare le nostre macchine cerebrali, ad arrestarne il frastuono, per cogliere il ticchettio di un altro mondo.
Se volessimo raffigurare, con un disegno, le singole persone che si incrociano per le strade della vita, potremmo disegnarle ognuna all’interno del proprio globo, senza che possano intercettarsi nella propria diversità, a causa dell’incapacità e dell’impossibilità di fermare il proprio moto di rotazione e rivoluzione: giostre che corrono veloci, senza potersi toccare!
La collisione è inevitabilmente dannosa, perché non si rallenta, mentre sarebbe possibile, persino, guardarsi negli occhi. I treni in corsa si incrociano velocissimi, che nemmeno si riesce a capire bene cosa siano, l’un l’altro, eppure esistono, e trasportano il proprio mondo, che resta imperscrutabile all’esterno.
L’aggancio della comunicazione non può avvenire senza fermarsi, o rallentare moltissimo, per poter mettere un braccio fuori dal proprio veicolo. E’ il destino dei destini, l’appiattimento delle diversità.
Persino la saggezza rischia di essere pericolosa, se non comprende un grande silenzio e i comandi per rallentare il proprio mezzo. Spesso, infatti, il saggio crede di essere tale, già prima di aver ascoltato che cosa vuole dire l’altro, così pone già dei limiti all’ascolto e condiziona la percezione del verbo che l’altro rappresenta. Bisogna morire per nascere, bisogna essere piccoli per poter capire di essere grandi.
E’ così che possono restare fuori della storia dell’uomo, proprio le voci più flebili, mentre sussurrano un ritmo diverso, che potrebbe anche risolvere i problemi del ritmo andante.
Il coro nasconde il talento personale, specie se è fuori delle regole del coro. Il talento personale racchiude i motivi stessi della sua originalità, indicando una diversificazione di stile, che ha la sua ragion d’essere proprio nella diversità.
Ho sempre pensato che potrebbe essere proprio il cambio di un millennio, come il volgere del tempo nei tempi, come un cambio di paradigma che apra un linguaggio con cui intessere nuove espressioni. L’eccesso di certezze, la sicurezza dei saperi antichi, l’ordine affastellato attraverso le norme, e le grandi verità intoccabili, sono i baluardi che ostacolano la conquista dell’intelligenza. Saperi erano anche le schiavitù dei neri, la sperequazione fra gli esseri umani, né più né meno dell’ovvietà del denaro e delle sue feroci regole per fare avvizzire la naturale propensione dell’essere alla felicità.
Vogliono convincerci che la vita è una fregatura, che non vale la pena nemmeno pensarne una diversa, che tutti gli ostacoli più fastidiosi siano la norma della nostra condizione umana. Invece, è solo un film, drammatico, di cui vogliono che, ad ogni costo, tutti ne facciamo parte.
L’ovvio è una specie di abito che indossa la realtà, quando vuole essere invisibile. L’invisibilità è la condizione per poter guardare senza essere visti, ma anche per poter essere visti, senza che si capisca nulla.
Che cosa direi se dovessi sottopormi a visita da un medico come me?
Racconterei che, sin dai primi ricordi della mia vita, ho la chiara percezione di non essere di natura umana, che tale sensazione mi ha reso diverso dalla banale immagine che pure potrei avere di me, ma che non sento dover perseguire.
Una grande nobiltà mi ha sempre interessato, più di qualunque altra caratteristica: ogni mio gesto, per avere senso, deve essere intinto in un bagno di utilità sociale, della quale mi sento direttamente responsabile, nell’ambiente che mi è attorno e per tutto ciò cui metto mano.
Nulla che accada avanti a me può rimanere fuori del mio raggio di amore e giustizia, e, pertanto, non posso esimermi dall’interessarmi di ogni situazione che possa risentire positivamente della mia azione. L’azione è come una cerimonia sacra che emana dal centro del mio essere, inteso come nucleo aggregativo dei migliori intenti verso la comunità.
Il sogno ricorrente è una grande spensieratezza per tutti, che consenta loro di potersi occupare soltanto di argomenti belli e utili per tutti, affinché il mondo sia migliore.
Ho l’esigenza di parlare non di me, ma di quello che, secondo me, è indicato fare, per promuovere pace ed armonia. Non penso ad altro.
Riconosco che, in mezzo a noi, operino delle forze oscure, che, senza nessun motivo importante, tolgono importanza alla vita stessa, nella sua semplicità.
Riconosco che, nella stragrande maggioranza dei casi, le persone operino, convinte che il proprio ruolo sia quello che svolgono, ma sono convinto che se potessi parlare al loro cuore, un numero grandissimo di loro, cambierebbe strada, perché, semplicemente, ritroverebbe il motivo profondo che ispira la loro venuta al mondo.
Talvolta, ripeto che a mala pena esisto, volendo intendere che la mia espressione più utile è quella che meno di tutte si impone sugli altri, funzionando come un catalizzatore, che consente una reazione chimica, senza entrarvi al posto dei costituenti che la rappresentano. Catalizzare significa rendere possibile, promuovere, estrarre, consentire, incoraggiare, ispirare, spiegare, ed assicurare, sempre, la propria disponibilità. Mi piace vedere gli occhi scintillanti delle persone che mi sentono parlare.
Vorrei riempire il mondo della mia voglia di fare, di creare modelli operativi tesi esclusivamente al progresso dell’uomo, fuori del suo corpo, ma specialmente all’interno del mistero che egli rappresenta.
Credo in un mondo libero, senza costrizioni imposte da nessuno di noi a danno degli altri.
Credo nel servizio, inteso come spendersi, con la propria intelligenza ed il proprio amore, a vantaggio di un sistema che risplenda del lavoro di tutti in tale direzione.
Credo nella competizione, col solo fine di superarsi per il valore del proprio operato.
Credo nella ricchezza, intesa come legittima soddisfazione del proprio lavoro.
Credo nella povertà, come scelta libera, per accedere alla comprensione della grandezza dell’Universo.
Credo nella necessità di aprire le nostre famiglie ad un concetto di famiglia, senza interessi limitati, per consentire a tutti di poter usufruire della ricchezza che, solo nella comunità, esprime il meglio delle nostre attitudini alla società.
Credo nell’inutilità e nella dannosità delle tasse, perché il lavoro delle persone non deve essere parassitato da un sistema oscuro che non premia il lavoro e non agevola una ricchezza legittima, basata sulle capacità delle persone. Sulle tasse, vorrei soffermarmi, con più precisione: se lo scopo delle tasse è raccogliere dei soldi dagli individui, che già lavorano per la comunità, perché esse possano comporsi degli interventi di ognuno di noi, non serve a nulla accanirsi con richieste di sforzi per spostare del denaro dalla propria vita a quella pubblica. Infatti, la vita pubblica, è già alimentata e resa possibile dal lavoro. Il problema del denaro, per opere e servizi, non deve riguardare il contributo in denaro, che le persone possono garantire, ma è di pertinenza di un atto pubblico, rappresentato dal potere dello Stato, che rappresenta la collettività, nel suo potere di stampare moneta e rendere possibile il riconoscimento reciproco del lavoro dei singoli. Non possiamo prendere linfa per vivere e poi rimetterla nel sistema da cui la linfa è provenuta. Possiamo, invece, produrre lavoro e sentirci riconosciuti, oppure decidere di farci riconoscere con mezzi che non siano soltanto il denaro. Ecco perché, imporre alle persone giuridiche un reddito presuntivo è come togliere loro la speranza di potercela fare, anche nella semplicità che può corrispondere ad un periodo di vita con pochi guadagni. Il sistema, però ci spinge a produrre denaro, a dipenderne, ad accaparrarne sempre di più, per paura di non potere affrontare evenienze, che non fanno parte della natura della vita, ma appartengono ad un’appendice imperniata sulla paura, sulla dipendenza, sulla schiavitù.
Nel contempo, tutto questo denaro, che non corrisponde ad altrettanta sicurezza effettiva delle persone, viene usato come un vero e proprio feticcio, teso ad alimentare dinamiche relazionali che perseverano nello svilire il valore dell’uomo, nel deprimerne la dignità, nel promuovere logiche di gruppi ristretti che si sono persi in un concetto finto di ricchezza, inutile a tutti, poveri e ricchi.
Il risultato dell’agire soltanto per la logica del denaro è una diffusa infelicità.
Un bouquet di riflessioni realizzate assieme al caro amico Ciro scognamiglio
Perché esiste tanta sofferenza?
Perché esiste una grande bugia.
La bugia è presentare risorse infinite, dichiarandole limitate.
Alcune persone si sono impadronite delle risorse, e continuano a farlo sempre più, pretendendo di venderle a chi ne avrebbe, naturalmente diritto.
Il sistema impiegato è la spietatezza, applicata con metodo sadico organizzato.
Nella quotidianità, si genera l’illusione che sia il fato o l’evoluzione della vita stessa a provocare la sofferenza, facendo perdere la fiducia alle persone.
Subentra una difficoltà diffusa, con rassegnazione, oppure antagonismo reciproco, per la lotta della sopravvivenza.
Il filo conduttore che trasmette la sfiducia e lo sconforto è il denaro, che dovrebbe essere il veicolo della fiducia reciproca.
I sistemi finanziari, di ogni genere, sono concepiti per ingenerare un senso di costrizione e per impedire la prosperità, che è lo scopo innegabile della vita.
E’ stato dimostrato ripetutamente che le banche, monopolizzando il concetto di ricchezza per pochi, concedono ogni sorta di irregolarità gestionale del denaro, ma non basta, perché le banche e tutti i sistemi ad esse correlati, come le borse e ogni altra entità avente scopo di lucro illimitato, come assicurazioni, istituti di credito e di così detto investimento, corrispondono al meccanismo che genera flussi di denaro che vengono creati dal nulla ed impiegati per generare dipendenza e costrizione, per distrarre le persone dal reale scopo della vita, che è esprimersi e prosperare in libertà, spingendole sempre più a snaturarsi, per inseguire il feticcio.
Il sistema del denaro per il denaro è totalmente sbagliato, in ogni suo dispiegarsi: tasse e tributi, atti a sfiancare i cittadini, multe che, con la scusa di applicare una funzione di polizia, in ogni settore, ricalcano lo stile costrittivo della vita imposta al posto dell’esistenza pacifica e serena, provvedimenti che sono basati sul senso di inutilità indotto, se ci si occupa di argomenti che non producano reddito, costi senza limiti per poter usufruire di terapie che non soltanto non servono a nulla, ma ammalano ulteriormente, sempre nell’intento di alimentare flussi di soldi, che sono solo una fissazione e che tanto non servono a nulla, da finire, prima o poi, in una miriade di fondi internazionali, di provenienza strana e/o incerta, che non si sa nemmeno come impiegare – la prova che moltissimi soldi sono sottratti al normale flusso di scambi sani fra le persone, che lavorano e permettono, effettivamente, la vita sociale.
Ogni persona ed ogni sistema che sia dedito a lavori che consentono lo spostamento di denaro, fuori del riconoscimento del lavoro, alimenta il meccanismo di parassitismo che svuota il cuore delle persone e le conduce al vuoto più assoluto. Non serve questo tipo di movimento, che rappresenta solo un vizio dell’anima collettiva, a danno della prosperità possibile del Pianeta.
Credo nella serietà del lavoro senza preoccupazioni di reddito, ma con la dedizione alla qualità propria del lavoro, nell’intento di rendere possibile anche l’acquisizione del riscontro degli altri, anche sotto forma di denaro, da essi elargito con spirito di gratitudine.
Credo che il guadagno più soddisfacente sia quello ottenuto con un lavoro utile e riconosciuto tale dagli altri.
Credo che il denaro debba essere riconoscimento del valore delle persone e non mezzo per deprimerne la personalità, come accade, ad esempio, con le tasse.
Credo che tutti i lavori che costringano le persone a svolgere mansioni non dignitose, a causa della disattenzione di altre persone, che potrebbero evitare la necessità di quelle mansioni, siano da cancellare dalla storia dell’umanità.
Credo che tutti gli spostamenti di denaro, con la scusa di creare posti di lavoro, che impiegano solo una parte piccolissima di quel denaro ottenuto, siano da ricacciare nell’inferno, lì da dove sono arrivati.
Credo che vi sia un numero enorme di persone che non intende reagire, pur sapendo che le cose non vanno bene, perché hanno dei loro canali “preferenziali”, che rendono inutile l’impegno sociale per un cambiamento, che a loro non serve, e dal quale sarebbero, addirittura, costretti a rivedere gli schemi impiegati per vivere. Meno individualismo e più maturità sociale.
Credo in una nuova forma di politica, grazie a persone oneste, che passino in rassegna i lavori svolti e decidano con serenità il giusto riconoscimento economico da erogare, caso per caso.
Credo che dovremmo finirla di fare gli adulti, parlando di utopia, ogni qualvolta si presti attenzione a comportamenti che sembrano impossibili, solo perché, finalmente, modificherebbero le disfunzioni più malsane della vita sociale. Il superamento di posizioni di comodo per pochi, che credono di essere i padroni del mondo, è l’unica fonte di ricchezza e benessere per l’intera Umanità.
Credo che bisognerebbe creare un numero sempre più vasto di occasioni, in cui, testi di questo genere debbano essere posti all’attenzione di persone sempre più numerose, per indurre un cambiamento, senza il quale il mondo è perso. Per me, l’opportunità di mediare un’informazione intellettuale è puro servizio: sarebbe peccato interromperne la diffusione.
Molte persone, sino ad oggi, impiegano le loro principali energie per arrabattarsi, con mezzi modesti, per lo più senza grandi risultati, sprecando il proprio talento. Sono assorbite in occupazioni prive di utilità per sé stesse e per la comunità, che resta viziata nella deformazione che i lavori inutili generano.
Queste persone possono svegliarsi e capire che possono dedicarsi a grandi opere, che possono attivare flussi di denaro nobile, per il riconoscimento e il conseguimento di alti livelli di consapevolezza, impiegando le proprie energie in lavori che creino momenti di diffusione di contenuti del genere di queste pagine. Tali contenuti sono una vera e propria merce, come altre merci, ma enormemente più nobile, quindi meritoria di investimento di tempo e denaro, per creare tempo (libertà) e denaro (soddisfazione).
La merce intellettuale di cui parliamo è vendibile tramite la stampa di opuscoli, la diffusione sul web, la creazione di conferenze, la divulgazione di articoli che diffondano loghi e contenuti utili per la crescita interiore delle persone e per il conseguimento del livello di libertà opportuno.
Solo quando avremo fatto di tutto per diffondere questo tipo di informazione, potremo essere certi di avere diritto di lamentarci ancora, qualora ve ne sia ancora bisogno.
Dedico queste mie riflessioni a tutti, specie a coloro che avranno la pazienza di fermarsi e trovare il tempo di leggersele, anche rinunciando ad alcune abitudini che sembrerebbero non concederglielo.
Dedico, in particolare, senza che mi si rimproveri per ciò, queste righe a tutti quelli che mi hanno conosciuto e che hanno potuto godere della speciale atmosfera che si crea quando stiamo insieme.
Ancora una volta, senza fini personali, soltanto nell’intento di non aver vissuto invano.
E’ singolare che un medico sia spinto ad occuparsi di tematiche sociali: evidentemente, trattasi di questioni di salute!
Ci vuole veramente tanto coraggio per fare una rappresentazione della realtà, totalmente scevra di condizionamenti, come se non vi facessimo parte anche noi.
Il coraggio di ammettere che ci sentiamo schiavi e non riusciamo a liberarci. Il coraggio di ammettere che, da tempo, ci siamo accorti della nostra schiavitù, ma non abbiamo avuto la capacità di dirlo a noi stessi.Il coraggio di rinunciare agli “averi” che non ci procurano benessere. Il coraggio di ammettere di essere prigionieri delle cose, che ci hanno indotto ad acquistare. Il coraggio di gridare che non siamo felici, perchè non ci sentiamo liberi. Il coraggio di mollare tutto e decidere di cambiare.
Ciao,
ci siamo incontrati ieri, non ti conoscevo se non attraverso le parole del caro Ciro.
Non ho voluto leggere di te prima, volevo incontrarti, senza alcun condizionamento.
Ti ringrazio per questa lettera che ci hai dedicato. E’ stato bellissimo leggerla.
Mi sono ritrovata in molte cose. Mi ritrovo nella incapacità di capire chi e cosa siamo nel “contesto” mondo. Quando ieri mi hai chiesto di parlare di me, sono stata incapace di farlo; non mi era mai accaduto prima che qualcuno mi chiedesse di farlo.
Ma, (per sgrammaticare), nella mia vita ho iniziato tanti percorsi, per ritrovarmi il credo, lo yoga, l’agopuntura, l’omeopatia, la terapia verbale, fiori di bach….tutti mi hanno aiutata a capire un po’ più di me stessa, e ringrazio tutte queste esperienze, ma la mia ricerca non è stata vana, dovevo approdare a qualcuno di speciale, e sento di averlo travato.
Anna Maria