Stili di malattia

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“Stili” di malattia (da “Tre senza sesso una persona sola” – Salvatore Rainò – Ed. Lulu)

 

La malattia racchiude in sé una miriade di significati che, a loro volta, provengono da atmosfere differenti e che condizionano tutto lo svolgimento della malattia stessa  e lo stile utilizzato dal contesto per gestirla.

Una persona si ammala, ma non si ammala da sola: è come se si ammalasse contemporaneamente l’insieme di persone che le vivono affianco.

Diventa difficilmente distinguibile la demarcazione fra obiettività del percorso della malattia e substrato culturale che la malattia pone in risonanza.

La sofferenza di uno di noi non lascia indifferenti le persone che incontra e queste reagiscono ognuna in modo singolare, a seconda del proprio bagaglio di esperienze, della qualità dei propri vissuti, del ruolo che la situazione contingente richiede.

Il medico che incontra una persona ammalata ha già avuto oppure ha, a sua volta, proprio in quel momento una madre oppure una sorella a casa che si sta curando per una malattia analoga e che lo coinvolge non soltanto come medico, ma anche e forse soprattutto come persona che, indipendentemente dal proprio ruolo sociale, si pone di fronte al senso della sofferenza e si interroga sul mistero inenarrabile che la malattia pone alla storia di ognuno di noi.

Ai sintomi propri di ciò che abitualmente designiamo malattia si sovrappongono ben presto i sintomi della nostra reattività al concetto di malattia prima di tutto.

Si miscelano aspetti di ordine differente che non consentono più di discernere con chiarezza ciò che la realtà biologica sta esprimendo e lo stile personale con cui gli astanti si sforzano di interpretare e di risolvere i disturbi.

L’emicrania cronica diviene allora un oggetto di attenzione specialistica di altissimo livello e richiede approcci qualificatissimi del settore con metodiche diagnostiche finissime ed altrettanto esclusive armi terapeutiche.

Eppure la stessa persona con emicrania, in un altro ambiente ed in un’altra circostanza non solo si ammalerebbe in modo probabilmente diverso ma riceverebbe un approccio in ogni caso differente e la sua “malattia” evolverebbe diversamente.

Dov’è la verità?   Gli aspetti culturali orientano inevitabilmente anche la gestione del vissuto di malattia e così questa diviene una specie di abito firmato che prende forma nel contesto globale delle aspettative della latitudine alla quale ci si trova e che si alimenta dei protocolli che hanno anche creato l’indotto destinato alla malattia stessa.

Esempio: se vi è un sistema oncologico che prevede la chirurgia e la chemioterapia per la cura del cancro, allora ammalarsi di cancro significa prima di tutto far funzionare tale sistema.

I meccanismi che conducono alla gestione di una malattia in un certo modo e con un certo stile diventano automatici e prescindono quasi sempre dalle possibilità di presa di coscienza individuale e anche favorevolmente originale che ogni malattia potrebbe evocare per la sua soluzione.

La medicina di stato e le medicine così dette alternative muovono da assunti di base che non si riconoscono e che procedono per itinerari completamente diversi.

Eppure la gente si ammala e si salva con uno stile o con un altro, ma alla fin fine l’importante è la forza che una persona sa tirare fuori per guarire.

La diagnosi di malattia etichetta la situazione di una persona e la trasforma istantaneamente in una prognosi con tanto di protocolli e di postille, con relative clausole: sembra un contratto fra il paziente ed un sistema di conoscenze accreditato dal contesto dominante.

Tutto ciò può però anche non avere a che fare con la realtà e ciò è dimostrato dal numero enorme di guarigioni anche importanti che si realizzano sotto l’egida di medicine non ufficiali.

Troppo facile in questi casi ricorrere al reclutamento dei meccanismi di suggestione, di condizionamento, di autoguarigione (parola che in tali frangenti acquisisce una sfumatura antiscientifica e che autorizza quasi a non prestare attenzione a meccanismi che invece meriterebbero di essere investigati con molta attenzione).

E’ una questione di accordi, di intese, di paure e di consuetudini che devono avallare la forza della massa, quella che non pensa, anonima, priva di un qualunque singolare approccio alla vita. Una sorta di fantasma aberrante che è costruito infondo dall’incoscienza e serve a fornire sicurezza alle aspettative di tutti soltanto finché sono assieme, perché ognuno di loro potrebbe non reagire nello stesso modo se fosse isolato dal contesto.

Moltissimi pazienti mi hanno raccontato che non avevano sintomi della loro malattia anche importante prima che un medico gliela diagnosticasse.

Non è una questione di diagnosi precoce della malattia, poiché sto parlando di indagini diagnostiche che hanno appurato la situazione in fasi anche completamente diverse e che quindi non possono essere sempre correlate ad un momento di espressione preclinica di malattia (cioè ancor prima che le alterazioni biologiche possano esprimersi a livello di vissuto).

Il problema è che una parte importante del vissuto di malattia si svolge da quando il medico riconosce la stessa e ne parla al paziente e dal modo in cui egli ne parla.

Quanti pazienti stavano bene prima di farsi le analisi e poi non si è capito più nulla?

Il ruolo del medico nel contesto della diagnosi firma la qualità del prosieguo della vita e, lungi dall’adeguarsi all’elasticità del decorso di malattia, la ingabbia spesso e volentieri in uno schema prefissato che deve soddisfare soprattutto le esigenze del medico e poi quelle del paziente.

Che peccato che, se il medico diventa paziente, difficilmente si sottoporrà ai sistemi che proporrebbe senza fare una piega ai suoi pazienti.

L’irrazionale si impadronisce del razionale, per quanto possa essere definita razionale la descrizione di una malattia e la sua sistematizzazione nel complesso sociale e scientifico così come siamo abituati a considerare.

Se si cambia la strategia di base utilizzata per fare diagnosi, cambia anche la “razionalità” implicata nel riconoscimento dei meccanismi. Ma allora dove finisce l’obiettività. Possiamo parlare di obiettività? Oppure stiamo soltanto riferendoci ad un ambito che abbiamo in un modo o nell’altro scelto per uniformarci ad una “logica” che  non tradisca il nostro senso di appartenenza al gruppo.

Un aspetto singolare, che emerge evidentissimo ascoltando il racconto dei pazienti sulla propria malattia, è il cambiamento anche positivo che la malattia consente ed alimenta. Si tratta di un cambiamento che la persona stenta a riconoscere come proprio e che racconta quasi con meraviglia, valorizzandone i vantaggi e dimostrando di aver assunto una consapevolezza che gli consente di superare emozionalmente il limite della malattia stessa.

Per questo motivo ad esempio Francesco Oliviero, medico e scrittore che vive e lavora a Palermo parla di “benattia” sostituendo al prefisso male di malattia un prefisso positivo ed incoraggiante come per l’appunto “bene”.

Altrettanto originale è la reazione del paziente alla propria malattia, reazione che assume molto spesso una tonalità energetica così significativamente positiva da non lasciare dubbi prognostici.

Eppure se il nome e cognome della malattia diagnosticata è troppo difforme dal sentire positivo del paziente, questi finirà con l’essere pressato a rassegnarsi alla prognosi anche molto infausta che il sistema medico tradizionale, quello scelto dalla massa del contesto in cui vive, promuoverà ad ogni piè sospinto.

La scienza alimenta il comportamento del medico inteso come applicatore di un sistema di conoscenze. Le conoscenze però sono sempre espressione di una scelta di settore e non  lasciano facilmente spazio a smentite se non in un contesto molto fluido ed aperto anche a profonde se non radicali revisioni.

I parenti della persona che ha ricevuto una diagnosi non stanno vivendo il processo biologico globale che invece interessa il paziente e quindi vivono “schizofreneticamente” l’avventura della malattia, non avendo altro che da assecondare i rituali di copione previsti  che sono però privi di anima, di quell’anima che proprio in quella persona, proprio in quel modo, proprio a quello scopo ha determinato la sofferenza.

Ricordo che quando lavoravo nei reparti ospedalieri, scherzando con i colleghi di clinica, dicevamo che allorquando un parente manifestava un’ansia eccessiva per la salute di un ricoverato e magari se la prendeva con i medici se le cose non andavano bene, si trattava senz’altro di un parente che non andava d’accordo con l’ammalato e che gli aveva fatto non pochi torti fin quando era stato  in salute.

Queste nostre battute, lungi dall’essere ridicole, si manifestavano quasi sempre sostenute dalla verità e non era difficile rendersene conto quando poi riferivamo al paziente dell’interesse del parente in questione.

Che significa tutto ciò? Forse significa che nella reazione dei parenti alla malattia e nel comportamento che questi esibiscono in tali circostanze vi è molto di evocato da situazioni interiori molto particolari che nulla hanno a che fare con il reale e sano interesse per la storia di una persona e con la scientificità dell’approccio e delle modalità scelti per aiutarla  a guarire.

Il rapporto fra il medico e il paziente è un rapporto fragile ed influenzato da molti fattori. La formazione del medico sia a livello umano che professionale, la sua etica, la sua morale, gli equilibri che lo vedono inserito in un coacervo di pressioni di vario genere da una parte. Dall’altra il percorso del paziente, le sue aspettative, la sua disponibilità a guarire (perché non è assolutamente scontato che un malato voglia guarire), il gioco dei parenti, l’influenza delle abitudini, delle voci che a vario livello apportano modelli di comportamento che si basano sul modello dei rituali di gruppo.

La malattia però non è un’entità staccata dalla vita del paziente fino a quel momento, piuttosto se ne alimenta, è forse la parte emergente dell’iceberg, la risultante delle componenti vettoriali che hanno determinato l’evoluzione di quella persona ed anche i blocchi.

Poi vi sono i conflitti, specie quelli irrisolti oppure irresolubili, tanto importanti da essere additati addirittura in contesto di medicina praticamente futuristica come la causa più importante di tumore maligno (Dr. Hamer).

Sicuramente l’interpretazione del concetto di malattia sta subendo una graduale e progressiva evoluzione e se ne stanno rivedendo i significati, l’utilità e lo scopo finale nella logica della vita individuale e collettiva.

Niente come la medicina è legato alle mode, alle tendenze, alla ricchezza ed anche alla povertà, in tutti i sensi, dell’ambiente in cui ci si muove.

La pratica ormai accreditata di far firmare il consenso informato al paziente prima di una manovra diagnostica, di una visita, di un ricovero o di far firmare un documento analogo ai parenti in situazioni di particolare gravità della cosa non è soltanto una cautela medico-legale e ricopre in fondo ruolo essenzialmente di tipo garantistico e contrattuale che, come già accennato tutelerebbe le parti dall’eventuale rivalersi dell’una sull’altra in caso di evoluzione sfavorevole.

Sarebbe opportuno comunque riflettere bene sul “senso” del consenso informato e forse molte volte sarebbe utile valorizzare invece il dissenso informato.

Infatti, la maggior parte delle volte, la firma del paziente viene raccolta come se si trattasse di una formalità d’ufficio ed in pratica non si rispetta alcuna modalità adeguata di informazione, oltre che non accertarsi della reale comprensione da parte del paziente.

E poi il consenso è più facile e ottenibile  di un dissenso, è come una vernice più coprente che non lascia trasparire le asperità presenti lungo il percorso dell’intesa fra il  paziente e chi è incaricato di prendersene cura.

Una paziente che ha risolto dei problemi abbastanza importanti grazie al mio aiuto lavora in ospedale come infermiera professionale. Io le ho chiesto che cosa pensa di aver capito da quando si cura con la medicina omeopatica.

Ella mi ha risposto che ha capito di aver perso tempo prima di rivolgersi da me, poi ha detto che forse i farmaci non servono a nulla e che sta buttando tutte le medicine che aveva in casa; infine ha aggiunto che adesso, quando somministra i farmaci ai pazienti in corsia,  ha molti dubbi ed è molto preoccupata.

Mi ha guardato e mi ha detto che ama molto il lavoro che fa e che lo fa con molta passione, ma non ha più la sicurezza che forse occorrerebbe e che non sa più bene che cosa è giusto fare.

Molto bene, ho pensato io, sta iniziando a capire che esistono vari modi di pensare e di fare e che non esiste una strada assoluta.

Mi chiedo quanto senso può avere nella vita accorgersi di poter cambiare delle procedure e volerlo fare, piuttosto che decidere di voler fare benissimo alcune cose e non interessarsi mai della possibilità di farle in un modo diverso.

Diversificare un’attività comporta uno sforzo, una presa di coscienza, un riconoscimento  dei propri limiti e di ciò che si stava facendo.

Ho sempre avuto una terribile stima per quegli artigiani che ad un certo punto della loro vita hanno deciso di rivedere il loro modo di lavorare, hanno cambiato strumenti, ambienti e con una certa nostalgia hanno rinnovato il loro lavoro commentando poi molto positivamente in seguito e ponendo in risalto tutto ciò che riuscivano in questo modo ad ottenere e che prima non avrebbero mai potuto pensare di raggiungere.

Ci vuole coraggio, ma soprattutto intelligenza, umiltà e volontà.

Ogni riferimento all’Arte medica è puramente casuale.

Penso che quando hai appreso qualcosa, dovresti essere grato al tuo insegnante, ma dovresti ricordare che, ogni volta che hai appreso qualcosa, non avrai potuto apprenderne un’altra e che potrai capire qual’era la più importante soltanto con ritardo, allorché tu abbia ancora la possibilità di apprenderne un’altra.

Mi viene in mente l’impermanenza tanto cara agli induisti e penso al senso di impermanenza che forse dovrebbe caratterizzare l’evoluzione culturale, scientifica e professionale del medico che si avventura con consapevolezza nella selva intricata dei vari orientamenti possibili per bruciare il proprio karma e prendersi cura degli altri. Perché questo è il dunque: prendersi cura degli altri. Qual è il modo migliore?

Può arrogarsi soltanto la medicina la facoltà di curare chi soffre, oppure vi sono altre discipline, altri piani cui può competere la funzione di svolgere un’attività per così dire terapeutica?

Molti fattori possono essere di giovamento al paziente, ma soprattutto una relazione rassicurante con il medico, la sensazione di essere oggetto di attenzione speciale e di essere compreso nell’originalità della propria storia. Sono convinto di ciò che sto dicendo, poiché me lo hanno insegnato i miei pazienti nel corso di quasi venticinque anni di attività professionale.

La medicina si vanta di essere efficiente, esibisce le proprie procedure come blasoni del progresso scientifico e della validità di un sistema amministrativo e politico, perché no.

Eppure non basta questo tipo di efficienza, occorre anche un altro tipo di efficienza forse meno sfrontata o, per così dire, scontata.

E’ giusto vantarsi di una diagnosi precoce, magari di cancro, ma forse occorrerebbe anche potersi vantare di essere in grado di offrire una diagnosi che non sia soltanto medica in senso stretto, ad esempio solo istologica, bioptica.

Se le persone sono poste nelle condizioni di farlo, posso assicurare che esprimono soprattutto una serie di sintomi globali della propria biologia e che, come sostiene nei suoi studi il Dr. Hamer, questi sintomi sono ripetutamente correlabili con patologie anche di tipo canceroso, come se anche il tumore, considerato in un’ottica speciale non sia una malattia orribile da scacciare e da attaccare ad ogni costo, anche a costo di danneggiare l’intero sistema ma possa piuttosto essere considerato una tappa estrema di espressione sensata di sistemi biologici coartati nella loro possibilità di espressione fluida.

Insomma forse tutto ciò che la medicina non ha ancora capito è la strada da battere per capire che cosa di meglio si può fare.

Mi rendo conto che le mie considerazioni possono per certi versi porsi in netto disaccordo con l’impostazione dottrinaria accreditata dal contesto medico ufficiale.

Però è anche vero che proprio un medico, come uomo di scienza, non può precludersi nessun tipo di prurito intellettuale specie se già supportato da risultati interessanti anche se ottenuti in atmosfere differenti per impostazione culturale ma anche scientifica nel vero senso della parola.

Il medico deve rendersi conto che, se non sta attento, finisce per essere un esecutore acritico di copioni che possono anche essere sconvolgenti e tutt’altro che rispettosi nei confronti della dignità della persona umana.

Sono poi convinto che il paziente abbia bisogno prima di tutto di reale disponibilità e comprensione da parte del medico e delle figure che con questi collaborano, più di qualunque “macchina” assistenziale che per quanto perfetta ed efficiente può facilmente risultare  anonima e frustrante sino a risultare persino ammalante.

 

Salvatore Rainò

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