Dreaming to dream, by dream to dream: monologo di un imprenditore risvegliato

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Dreaming to dream, by dream to dream: monologo di un imprenditore risvegliato

Se fossimo liberi dalle abitudini, potremmo riuscire a rivedere completamente come sia la   nostra esistenza. Infatti, viviamo, mentre non pensiamo minimamente a che cosa è la vita, salvo piccoli lazzi inconcludenti, in cui troviamo la forza per lamentarci.

Ma se potessimo, per un attimo, dimenticare tutto, e rientrare in un film, che non abbiamo mai vissuto prima, sceneggiato da un regista che non conserva nessun legame con le sue vite precedenti, allora potremmo capire tutto quello che non riusciamo a capire quando siamo troppo dentro questa vita.

Per esempio, parliamo di tasse, imposte, tributi. Gli esseri umani, organizzati socialmente, hanno la strana abitudine di incastrarsi in ruoli e vesti di vittime e di carnefici, come se non potesse essere immaginabile una coesistenza serena, con regole che non inficino, per nessun motivo, la felicità di ognuno.

E’ abitudine comune pensare che il lavoro sia un particolare beneficio che soltanto i più abili sono in grado di ottenere, per confezionarsi una parvenza di stabilità, così la chiamano, una specie di pubblico ludibrio, sia per i mezzi illeciti, ma da tutti usati, sia per le movenze dei malcapitati, che poi devono dimostrare di essersi meritato il martirio che tutti chiamano occupazione.

Trattasi, in effetti, di una strana “situazione”, in cui, si ipotecano tutte le proprie facoltà psichiche più avanzate, ma soprattutto quelle più “avanzabili”, che consentirebbero di capire che non serve a nulla eseguire, per anni e anni, le stesse mansioni, per far contento il capo-ufficio, o per non lasciare dubbi nei dipendenti, affinché  pensino che davvero l’incastro, per essere perfetto, debba essere rigido, al punto giusto, e mortificare le coscienze, sino al momento in cui, dopo aver dissimulato la nostra utilità pubblica, per anni, finalmente Ti sbattono fuori, con quattro soldi, ma tanti sermoni di benemerenza che significano che finalmente la commedia è finita.

Di che cosa si nutre l’organizzazione sociale? Di stupidità, di servilismo, di una singolare forma di ingenuità, che sfiora la demenza, ma che è assolutamente funzionale al grande inganno. Quale? Quello di farci credere che tutto ciò sia normale.

Ti prepari, per tanti anni, in un modo o nell’altro, a ricoprire un ruolo,  che sia importante o meno austero, ma sempre tale da includerti in un ordine, quello dello sfruttamento, non delle tue facoltà, ma dei residui di libertà che lasciano l’anima scoperta in un mondo pieno di stupidità. Se soltanto fossimo usati per le nostre facoltà, andrebbe anche bene condurre una vita piena di sacrifici, ma il fatto è che le nostre facoltà non interessano, generano disagio e, poi, sono troppo pericolose, poiché potremmo convincerci che, davvero, la vita non è questo.

Una strana coesistenza di grandezza e di miseria regge le sorti della nostra vita quotidiana, al passo con la pubblicità, che impone anche lo stile con cui potremmo pensare di non essere d’accordo con il tutto. Questo tutto, che è più simile al nulla, che serve, perché non serve, che è stato creato al solo scopo di assorbirci, come bevande anonime, al  fare nulla, dalla mattina alla sera, imbibiti dentro una spugna gigantesca che non riesce nemmeno più ad assorbire altro, tanto è piena di vuoto, da tutte le parti.

Bisogna che rimaniamo diseducati, per non funzionare, per sporcare, per consumare, per credere di essere importanti, mentre sciupiamo ogni nostro sogno, all’interno di un tritacarne che produce ansia e solitudine. Guai a chi pensa diversamente, sarebbe indegno di una società civile!

Perché la civiltà si alimenta di lavori inutili che non servono a migliorare le persone, ma a lasciarle abbagliate nelle loro terribili abitudini? La compiacenza veste firmato e non ammette deroghe, non riconosce altre strade, che non siano quelle rese note e spalmate, come lurida marmellata, da quattro soldi, piena di conservanti e fatta senza amore.

Dov’è l’altra strada? La strada che non imbocchiamo, ma che ci perseguita, quando ci lamentiamo delle cose e continuiamo a farle per il solo piacere di farci male, come siamo abituati a fare.

L’importante non è fare un lavoro bello, nobile, utile, che serva alle persone a crescere e diventare migliori, l’importante è guadagnare, per poter vivere, poter mangiare, sin troppo, per poterci ammalare, e consumare anche le nostre ultime speranze di essere sani e felici.

E’ un hobby, quello di divertirci, facendo qualcosa di grottesco, come praticare giochi violenti, che ogni giorno arrecano non pochi danni, e che riempiono gli spogliatoi del nostro sudore madido di inutilità.

Siamo garantiti dall’ordine pubblico. Di fronte al susseguirsi di manovre governative che non puntano ad altro che alla preservazione della nostra incolumità. Le cinture di sicurezza sono obbligatorie, così siamo liberi di non essere multati da agenti, che non prestano nessuna attenzione allo stile di guida. Una distrazione, nel non averle indossate, diviene il vessillo di una forma di pericolosità sociale, come se potessimo generare la caduta dall’alto di non so chi o che cosa.

Il comportamento punitivo, esemplare, esibito nell’individuazione del reato, diviene esempio di rigore e viene additato come  indispensabile per alimentare una sicurezza che viene fatta con gli obblighi, ma non viene promossa con l’educazione. Quanti slogan per incoraggiare le persone a prendere uno stupido analgesico, mentre si lascia correre sui nostri comportamenti, che non sono oggetto di campagne formative e realmente preventive?

Dimenticavo! Le multe servono a mandare avanti i nostri bilanci comunali. Per questo, dobbiamo pagare la multa, se rimaniamo vittime di una delle tante postazioni autovelox.

Le autority garanti non perseguono argomenti incresciosi, come la satanica diffusione delle Energy drinks e della discultura che ne alimenta l’uso perverso.

Le multe ci vengono comminate con lestezza, le revisioni delle abitudini dannose, che creano interessi commerciali da spasimo, quelle, latitano, e lasciano il tempo che trovano, mentre le strade si riempiono di lapidi del sabato sera.

Un sistema che ha bisogno dell’imperfezione, che ha bisogno del vuoto culturale, che non lascia spazio ad una intelligenza propositiva, scoraggiandone sistematicamente le varie applicazioni possibili.

L’unica intelligenza possibile, promossa, custodita e lanciata, nei mille rivoli della vita quotidiana, è la speculazione finanziaria. Il grande meccanismo, che vede l’uomo incardinato sul non senso della ricchezza finanziaria, con le sue trappole fatte di miraggi e di ripercussioni gravi sulla relazionalità fra le persone.

Chi accede alle borse, comunque va a messa, la domenica, e promuove riunioni di quartiere per discutere del miglioramento delle piste ciclabili. Egli lascia, però, che si deteriori sempre di più il tessuto della cooperazione fra gli individui, alimentando prevaricazioni e dispetti a danno del primo che capita.

Un terreno infido, quello della civiltà, quello della vita sociale normale, che continua ad illuderci che sia possibile vivere una vita che alla sua base ha la negazione della vita stessa.

Dedichiamoci, ancora per qualche istante, alle tasse. Queste, e loro consimili, servono a convincerci che dobbiamo contribuire al bene pubblico, con un nostro sacrificio personale. Comunque, trattasi di soldi, che vengono fatti passare dalle nostre tasche, perché possiamo illuderci di averli guadagnati. Non si capisce perché essi debbano transitare nella nostra vita personale, dato che sono, in origine emessi dallo Stato, e servono per la vita pubblica. Che bisogno c’è di privatizzarli prima, e di riprenderli poi, con uno schema che serve soltanto a ridurre la libertà individuale e a fornire quella ineluttabile sensazione di essere inseguiti da un sistema fiscale che preme sempre di più.

Le tasse servono, nominalmente a garantire  opere e servizi per tutti, dovrebbero essere commisurate sui bisogni reali della comunità, invece vengono fatte dipendere dalla volontà e dalla possibilità dei singoli. Fatto strano, poiché stiamo parlando di energie convenzionali pattuite come mezzi, che lo stato eroga al servizio della comunità.

E’ troppo lungo l’iter che questi soldi devono percorrere, avanti, indietro, attraverso mille peripezie, per non bastare mai e conferire il diritto, ai vertici, di inasprire sempre di più le modalità per riottenere titoli di credito che dovrebbero essere garantiti dallo Stato direttamente ai cittadini, almeno per il solo fatto che essi lavorano. Lo stato, quindi, paghi le tasse ai cittadini!

Una persona, dopo aver fatto dei sacrifici, finalmente arriva, spesso con difficoltà, a comprare un bene, un’automobile, una casa o altro, persino il luogo in cui lavorare. Lo Stato, a dispetto dei sacrifici sopportati, stabilisce delle tasse, senza il cui pagamento, il cittadino perde il diritto alla detenzione del bene.  La natura del versamento contributivo dovuto è legata al fatto di aver acquisito un bene e di poterne finalmente “godere”.

Non vi è quindi , al primo posto, l’obiettiva necessità di disporre di fondi da utilizzare per pubbliche necessità. Prioritaria è la stessa finalità intrinseca di tassare il bene, per cui, se molte persone decidessero di acquistare dei beni tassabili, il Governo centrale si troverebbe a disporre di cifre di denaro gigantesche, perché i beni acquistati sono aumentati anche vertiginosamente.

Come se, con le spese sostenute dai cittadini, ci si ritenesse autorizzati a innalzare gli standard di necessità di spese pubbliche da sostenere.  Eppure, le spese individuali sono già uno sforzo sostenuto dalle persone e, magari risulta penoso un ulteriore aggravio che chi ha già dovuto comprare un bene dovrebbe sostenere. Insomma, sembra di essere al cospetto di una congettura alimentata dal dispetto, come l’amichetto geloso della tua bicicletta, che si diverte a negarti qualcosa che non gli costa nulla concederti.

Ma non finisce qui. Infatti, una volta sostenuta la spesa per acquisire un bene, le tasse non sono richieste una sola volta, ma quasi sempre si perpetuano all’infinito, con nuovi appuntamenti annuali, che sfiancano le persone e le privano della soddisfazione di avere acquisito un bene. Spesso, per questo motivo, i possessori di un bene preferiscono rivenderlo, anche con qualche difficoltà. Tutto questo meccanismo avvilisce il naturale percorso che va dal lavoro all’acquisizione di un bene e finisce per deformare quella naturale propensione dell’essere umano ad impegnarsi, anche con sacrificio, per migliorare anche la sua situazione patrimoniale. Si sono vendute le terre, per darsi all’industria, perdendo non solo il bene, ma anche la propria autonomia di legame con la terra e la propria autonomia produttiva.

Tale innaturalità ha fatto perdere intraprendenza e coraggio, speranza nel futuro, mentre si percorrono giornate fatte di incertezza e assenza di iniziative.

E’ un resistere, ad una specie di carestia, di cui non si è capaci di analizzare con precisione i meccanismi, per rimuoverli, e riprendere ad andare avanti.

Il grosso fraintendimento è quello del denaro come bene fine a sé stesso. Tale idolo alimenta dinamiche psichiatriche finanziarie, che isteriliscono l’agire umano ed il suo impulso alla propensione. Si crea una sorta di chiusura, tesa all’accaparramento di somme di denaro, che finiscono per non alimentare nulla di reale, soltanto transazioni virtuali, da un computer ad un altro, per la gioia perfida  di individui privi di qualunque consapevolezza sociale ed etica. Siamo nelle mani di persone di tal fatta!

Ma, ancora più grave, siamo complici ad ogni livello, in ogni ambito, perché siamo incapaci di riconoscere il reale significato del nostro agire, per esempio, quando giochiamo una schedina, facciamo una scommessa, giochiamo in borsa, investiamo in allettanti proposte bancarie, che, ancora una volta, servono a rastrellare soldi per “idolizzare” ulteriormente il concetto della velleità dell’accaparramento e del così detto investimento: il feticcio.

Il vero, l’unico scopo del danaro, è quello di rappresentare la fattibilità di un rapporto di lavoro, che si basa su competenze  e sulla volontà di mettersi in gioco.

Gravissimo che le persone abbiano incastonato comportamenti malati, del genere citato nei righi precedenti, all’interno di una quotidianità normale e, spesso, ammantata di perbenismo ed altre corbellerie del genere.

Il denaro che viene speso per costruire una strada viene creato, dal nulla, dalle Banche, ed è una fortuna che possa incarnarsi in reali opere, la cui concretizzazione offre ricchezza alle persone che contribuiscono e a tutti coloro che ne faranno uso.

Perché si ostinano a farci pensare che questi soldi debbano essere munti dai cittadini, con manovre penose e avvilenti, quando i cittadini dovrebbero essere automaticamente beneficiari di tutto il movimento di denaro e lavoro, che rappresentano il così detto fenomeno dell’inveramento del denaro?

In un’altra ottica, certamente più sostenibile, lo Stato premierebbe i cittadini più operosi, riconoscendo loro dei redditi che derivano direttamente dalla loro partecipazione produttiva alla vita pubblica: le tasse al contrario.

Perché no? Questa è la domanda più eversiva che il sistema disdegna all’interno delle singole coscienze. Non è consentito pensare in modo innovativo, salvo che per ufficialità che terminano di occuparsi della reale innovazione, quando tutti tornano a casa e tolgono la cravatta e il tailleur. Infatti, come è ben noto, è difficilissimo, per coloro che hanno una nuova idea da lanciare, riuscire a farlo effettivamente, con l’aiuto dello Stato. Ovviamente, vengono pubblicizzate molteplici situazioni, che sembrano negare quanto detto, ma che sono confezionate a posta, per creare confusione.

La trama del lavoro è volutamente lasciata alla mercé dell’inutilità, primo criterio che alimenta la maggior parte delle mansioni. Manca una gestione coordinata  dei flussi generati dalle nostre azioni, fatto a posta, in modo da affidare ad alcuni il compito di aggiustare ciò che altri hanno rovinato. Per esempio, gli spazzini vengono pagati per raccogliere l’immondizia gettata da una massa enorme di persone che vengono, volutamente, lasciate nel loro stato brado, perché possano continuare a sporcare.

Ovvie le conseguenze: il livello generale della qualità della vita si abbassa, nella misura in cui i lavori sono automatiche attività, prive di un vero e proprio potenziale migliorativo ed evolutivo.

Le amministrazioni dei vari comuni sono costrette, di continuo, a creare posti di lavoro, che servono solo a garantire dei redditi, mentre sviano la crescita individuale e collettiva e potrebbero, invece, creare una nuova forma di ricchezza, assolutamente slegata dal passaggio di soldi in modo vano.

Una caratteristica delle mansioni lavorative più inutili è la precisione e la caparbietà con cui gli incaricati perseguono i loro compiti, il che genera una sorta di ipnosi collettiva e distrae da un vero progresso della società. L’importante è portare dei soldi a casa, per far “campare la famiglia”, anche se tutto ciò è frutto, e causa, contemporaneamente del vuoto più assoluto.

Nuovi valori, nuovi lavori!  Serve, nel senso che non tradirebbe gli scopi che tale ardire si prefissa, una nuova ottica cooperativa, fra le persone, gli enti, le rappresentanze di ogni genere, tali da rispecchiare nella vita di ognuno i bisogni della vita di tutti. Un unico campo di risonanza, ove non vi siano sciupii che, dopo, servono soprattutto ad alimentare rivoli perversi di denaro, che spariscono dalla fruibilità quotidiana, per perdersi nelle logiche paranoiche dei nuovi malati: gli psicotici della finanza speculativa.

Tutti per uno, uno per tutti?  Quando qualcuno ha coniato questo splendido aforisma, a che cosa stava pensando?  Pensava, forse, alle dinamiche perverse di Equitalia, che sequestra beni, mezzi, irroga sanzioni impossibili da sostenere, mentre la sua bieca manovalanza indugia ancora,  e non si sottrae a compiti così disumani  e criminosi?  Qualcuno si è già sottratto. Perché gli altri non seguono?  Da quale parte sta la coscienza?

Queste riflessioni hanno una sola pecca, sono frutto dell’esplorazione, sensibile e disarmata, della realtà possibile, a patto che ci si liberi da ogni pregiudizio, senza rimanere incastrati nelle reti abituali che catturano l’intelligenza delle persone, a loro discapito.

Il disimpegno che, al massimo può configurarsi, nel non dar seguito a tali teorizzazioni, con opere pratiche, trova una risposta, prima di tutto, nella pazienza che si ha quando, con dei bambini capricciosi, si continua a resistere alla tentazione, talvolta forte, di prenderli a schiaffi, e, in secondo luogo, alla fermezza dell’idea secondo cui la forma più grande di concretezza è quella di colui che ha il coraggio di assumere in sé le responsabilità, almeno, di aver parlato, rimanendo opinabile una modalità, che, magari, superi, anche di parecchio, il piano della sola, rispettosa e chiara denuncia di un problema.

Piuttosto, chi ascolta, si faccia strada, attraverso la propria coltre di abitudini e venga fuori, con quell’apertura, che, quando diviene diffusa e profonda, crea una nuova epoca.

 

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