Dentro di me – fuori di te

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1999

Quando un animaletto, come per esempio, una taccola viene al mondo al di fuori della sua comunità naturale, con gli uomini, come raccontato da Konrad Lorenz nei suoi studi, identificherà l’uomo come la stirpe da cui deriva e si rapporterà ad essa come se questa fosse composta da taccole.

Tale considerazione, che può sfuggire ad un osservatore superficiale, cioè a chi praticamente non osserva, è in grado di aprire invece uno scenario di letture enormemente affascinanti sulla natura dei comportamenti che anche quotidianamente caratterizzano la vita.

La taccola, quindi, attinge l’immagine del sé dalle creature “in grembo alle quali” la vita le porge, ma risponde con codici comportamentali che non sono della specie di chi la accoglie bensì di quella da cui proviene.

Per esempio, Lorenz racconta che una taccola si innamora dell’uomo e conduce i vermi spezzettati e misti alla sua saliva nella bocca dell’uomo, come per prendersi cura di lui tramite un gesto che riserva normalmente alla prole ed alla sua amata compagna.

Tutto ciò è semplicemente formidabile e ci fa riflettere sul senso della natura profonda dei nostri gesti e sulle possibilità infinite di lettura da parte di chi ne è l’obiettivo.

La stessa cosa si verifica tra di noi, umani, amici, figli e genitori, marito e moglie, medico e paziente.

Una volta un paziente mi disse sul più bello che le ricordavo sua madre. La figura di questa madre aveva creato non pochi problemi all’evoluzione della sua esistenza. Dal momento in cui il paziente mi dichiarò la sua sensazione, la visita apparve in tutta la sua impraticabilità. Il paziente non è mai più tornato da me. Eppure, mentre lui mi raccontava dei comportamenti materni, io, dentro di me, avevo provato un grande disappunto per questa mamma e mi stavo preparando a condurre per mano la persona che avevo di fronte in una rilettura della sua relazione con la figura materna, sulla scorta del “distacco in accordo” di Bert Hellinger. Ciò avrebbe aiutato moltissimo il paziente.

La mia azione terapeutica fu resa irrealizzabile dal muro che si era erto fra me ed il paziente che ormai era convinto di avere davanti sua madre.

Molte volte è così: pensiamo di avere a che fare con una persona che non esiste se non dentro le pieghe della nostra anima. E’ curioso quanto uno scherzo del genere possa avere ripercussioni pesantissime sulla relazione e sulla possibilità di trarne tutti i vantaggi che magari essa poteva offrire.

Su tale meccanismo sono basati molti disaccordi, molte traversie che imperversano nell’universo relazionale della nostra vita.

Gli automatismi generati da sviste di questo genere sono una vera e propria piaga per coloro che cascano nella trappola e non riescono ad intessere un rapporto sul materiale che effettivamente esso pone a disposizione.

Le percezioni che evocano alcune persone non dipendono per nulla dalle loro caratteristiche, come la taccola pretende di nutrire l’uomo soltanto perché da qualche parte della sua scatola nera ha depositato un tal comportamento che non ha nulla a che fare con gli esseri umani. La taccola vede qualcosa che non c’è ed automaticamente confeziona una risposta comportamentale che in pratica distorce la realtà.

Tale modello etologico è più legato a ciò che non esiste piuttosto che a ciò che configura la realtà. Ciò che non esiste può condizionare più di ciò che è reale, se manca quella attitudine di vuoto esperienziale che rende possibile l’acquisizione di elementi che non abbiamo ancora.

E’ una vera e propria scannerizzazione della pagina con un obiettivo deforme ed incompleto che non permette di integrarsi nel nuovo.

Tutto ciò può ancora risultare comprensibile, sebbene con difficoltà, ma se pensiamo che la lettura o la cecità possono susseguirsi nella stessa persona nel corso della sua esistenza e condizionare completamente ogni suo più puntiforme comportamento, allora davvero l’immaginazione della stessa congruenza delle mie considerazioni potrebbe venir meno e lasciare spazio al caos più indescrivibile.

Per di più, vorrei aggiungere una ulteriore variabile, cioè il viraggio percettivo apportato ad un soggetto che sta assumendo un rimedio omeopatico nel corso di una sperimentazione patogenetica di qualunque genere.

Insomma, che cosa è degno di essere considerato vero e perche?

Lungi dal voler fornire delle risposte esatte, insisterei piuttosto sull’importanza di accorgersi della problematicità della storia di cui ci stiamo occupando e sul senso che il non senso può assumere se riusciamo a leggere persino queste righe senza pensare troppo, senza afferrarci ai nostri schemi troppo saldamente e prestando attenzione soltanto all’ombra delle nostre reazioni quando pensiamo di essere stati attenti.

E’ un gioco straordinario, così complesso, così insolito, da essere praticamente possibile soltanto se ci si abbandona completamente all’assenza di regole. Così possono delinearsi nuove regole, ma attenzione a non affezionarcisi  troppo  per non incorrere nuovamente nell’illusione che ha reso difficile la comprensione attuale.

Come dire: la coscienza dell’incoscienza genera una particolare forma di sicurezza atta a vivere l’impermanenza e l’aleatorietà.

Come fare a capire se ciò che stiamo pensando è vero oppure nasce soltanto dentro di noi? Semplice: basta non meravigliarsi di esserci fatta una domanda del genere.

La meraviglia è o una virtù dello spirito o un difetto dell’abitudine. L’abitudine è l’assenza di domande, la sicurezza è lo spettro della scoperta, la scoperta è l’inizio di un nuovo modo di farsi delle domande.

C’è ancora di più: oltre il fluire possibile delle percezioni vi è il senso che possiamo trovare nello smettere di avere certezze, nell’iniziare a capire che modificare la nostra vita è possibile soltanto quando smettiamo di dire “secondo me”.

Cerchiamo ora di essere più pratici: quando vogliamo  ottenere qualcosa che ci interessa, dovremmo prestare attenzione a non opporci alle sensazioni che proviamo. Esse possono essere più importanti della nostra “sensazione di volontà”, possono condurci ad un capovolgimento delle decisioni, possono farci capire qualcosa che avremmo bisogno di comprendere.

Adesso vorrei parlare delle conseguenze delle sviste percettive su coloro che le subiscono all’interno di una relazione sbilanciata, diciamo per obiettività.

Si è tanto meno obiettivi quanto più si è automatici. L’automatismo è quasi sempre erroneo nei meccanismi affettivi, quanto invece è opportuno nei processi produttivi industriali. L’uomo, però, non è un’industria, egli è un laboratorio sperimentale in itinere e quindi è aperto sempre al rinnovamento, praticamente, di ogni sia pur minuscolo aspetto, dal colore della cravatta preferita al modo di pregare quando va a letto la sera.

Forse non abbiamo parlato di nulla, ma in questo caso vuol dire che almeno in ciò ho fatto centro!

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