Ambiente e malattia

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(dal seminario del Dr.Rainò tenuto il 15 giugno 2008 ad Altamura)

Ciò che intendiamo come ambiente viene attribuito automaticamente a qualcosa di esterno a noi.
Però, se osserviamo bene la presunta alterità dell’ambiente e contemporaneamente svuotiamo noi stessi di ogni certezza, possiamo facilmente avere la possibilità di constatare che non esiste nessuna differenza fra di noi e ciò che sembra esistere fuori di noi.

L’ambiente esiste nella sua oggettività solo in funzione della nostra capacità di delineare bene la nostra individualità originale.

Per riconoscere chi siamo occorre un cammino di esplorazione della nostra autenticità che ci conduca a non confondersi con facciate che inducano in errore chi ci guarda.
L’errore consiste nel fornire agli altri un’immagine di noi stessi che non li ponga nelle condizioni di poter essere sinceri. Si crea un gioco di finzioni in cui non cresce né chi inizia a fingere né chi di questa finzione è vittima.

La pratica della medicina omeopatica consente al medico di riconoscere i meccanismi che determinano le malattie con chiarezza, come se si osservasse da una lente polarizzata che elimina i riflessi, il riverbero, e lascia l’immagine priva di artefatti che impediscano di vedere le cose per quello che sono.

Di fatto, non può un medico omeopata non rivoltare le regole con le quali ci si muove abitualmente nella giungla dei riflessi di luce che la confusione in cui viviamo realizza ad ogni piè sospinto.

Nel corso di anni di attività medica, nell’ascolto delle vite raccontate in corso di visita, il medico si chiede a che cosa sta davvero partecipando e si chiede se è giusto soltanto assistere oppure condividere con chi racconta l’esperienza che in fondo non è mai individuale ma che rappresenta solo una scansione temporale di vissuti che appartengono a tutti e che solo in alcuni momenti riconosciamo come se fossero quasi soltanto nostri.

Ci si muove fra il dire e il non dire, tra il concedere la verità e il negarla con ostinazione come se poi non si vedesse ugualmente tutto ciò che ci anima nei nostri più fini meccanismi di comportamento.

Il non poter essere ciò che si sente di essere è la causa principale delle nostre malattie. Le persone raccontano al medico cose che non racconterebbero nemmeno a sé stessi. Negano per una vita a chi gli vive affianco e poi svelano tutto al medico.

Perché questo gioco perverso che annichilisce la nostra biodiversità ed omologa l’aspetto più magico della vita che è la nostra originalità?

Fare il medico mi ha costretto a pormi domande, ma presto la costrizione vissuta come tale solo inizialmente si è trasformata in un modo di essere libero nell’articolarsi della relazione fra la mia ombra e la fonte luminosa che la determina attraverso un meccanismo che rende assente il mio corpo. Ad un certo punto anche l’ombra è scomparsa ed è rimasta la relazione d’amore fra la luce e la mia luce in un rapporto di dualità monale che ricorda il concetto di trinità in base due (in cui le variabili sono due).

Dove è il senso dei nostri comportamenti?
Chi siamo veramente?
Da dove veniamo?
Che cosa dà origine alla nostra modalità di essere?
Verso che cosa andiamo?
Quali sono le nostre progettualità?
Quale è il senso della nostra vita individuale?
Quali le ricchezze che abbiamo a nostra disposizione?
Di che cosa dobbiamo liberarci per volare in alto?
Siamo sicuri di sentire la nostra trascendenza?
Perché ci ostiniamo a non riconoscere negli altri le qualità che vorremmo avere?
Perché non proviamo a far funzionare le nostre qualità?
Perché non lasciamo tutto ciò che non usiamo mai ed impariamo a vivere come gli uccellini che sono liberi di godere di quel nulla da cui pochissimo si distinguono?
Che cosa cerchiamo?
Perché non andiamo incontro a ciò che realmente ci interessa?
Perché siamo disposti a perdere la nostra intera vita per occuparci di ciò che ci interessa meno?
Siamo sicuri che non possiamo e non dobbiamo essere migliori di quanto riusciamo ad immaginare?
Perché non possiamo mentire?
Perché la verità è sempre la prima cosa che abbiamo bisogno di dire?
Quale rapporto esiste fra la nostra originalità e la nostra sincerità?
Perché vaghiamo fra mille vie e non percorriamo la nostra strada del cuore?
Possibile che davvero non sentiamo la nostra eternità?
Che non cogliamo la provvisorietà della nostra vita scontata e la grandezza immane della nostra trascendenza?

Occorre dirci sempre la verità e dirla sempre agli altri per non lasciare correre relazioni inutili e svuotanti che non festeggiano il principio di dualità, specie quella fra maschile e femminile.

La sincerità va esercitata momento per momento dicendo la verità e omettendo le bugie sulle cose e su di sé. Occorre essere autentici e non celare la verità del proprio essere dietro meccanismi di difesa.

Per perseguire le nostre finalità intrinseche in modo fedele alla nostra originalità abbiamo bisogno di praticare la sincerità e di spiegare le vele del nostro essere al vento della vita, per non allontanarci dal sé e non tradire l’essenza più pura che occorre presentare invece attraverso la nostra vera immagine.

L’idea distorta di noi stessi è generata dal tradimento a danno del nostro pensiero che guarda la propria origine come se non fosse reale.

Non apporteremo contributi costruttivi al mondo se non riusciremo ad accedere con coraggio e spregiudicatezza filosofica ai nostri sentimenti che non possono restare oscuri e che hanno la libertà dell’aria che corre sulle cime della montagna.

La negazione del sé è il più grande ostacolo alla realizzazione, all’incarnarsi e produce problemi molto più grandi di quelli che si vogliono evitare negandosi.

Una legge fondamentale dello spirito è il riconoscimento della propria vitale verità nel contesto armonico dell’integrazione della personalità con le dinamiche costruttive che servono al futuro del nostro pianeta.

Non possiamo continuare a fornire ai nostri figli una bugia reale ed una verità nascosta. I nostri reali bisogni bambini restano traditi dall’età adulta che poi rinnega la verità e si ripiega nella malattia del non dire.

Chi non si appropria del proprio sviluppo spirituale manifestandolo al mondo intero è fuori della vita e aspetta la morte senza speranza.

Dove sono gli strumenti per non nascondersi a sè stessi?
Dove inizia il cambiamento per ritrovare la dimensione realizzativa del sogno?
Quale è il percorso diagnostico che la malattia vuole farci realizzare per riconoscere i meccanismi che l’hanno resa necessaria?

La medicina viene vissuta come un sistema meccanico che elabora informazioni incoerenti con la natura stessa della vita. Si è costruita una trincea che pone gli esseri umani in conflitto con la produzione più libera del proprio pensiero e li costringe a negarsi nella propria autenticità, creando un ambiente esterno che è l’aborto del sé dinamico e creativo.

Per esempio l’essere umano prima inquina e poi considera inquinato l’ambiente e non pensa che inquinata è prima di tutto la propria sensibilità.

Oppure, prima crea i modelli astratti di malattia e poi vi fa corrispondere la parzialità dell’inquadramento medico come se coincidesse con una realtà obiettiva che si impadronisce delle persone. Invece bisognerebbe considerare le malattie come se le guardassimo dall’esterno verso l’interno e non viceversa.

La società, come sistema autoorganizzato su vasta scala, legittima e promuove una medicina che designa scientifica, scegliendo come centro di gravità tutte le proiezioni umane nell’ambiente, cioè utilizzando teorie e congetture che non derivano dall’osservazione integrata dell’uomo, relegando ad un ruolo per così dire alternativo una medicina in prospettiva antropologica.

Dunque la medicina ufficiale è ormai come l’ambiente in cui si muove e cioè è una medicina molto antropizzata, ma poco antropologica.

L’ambiente naturale non è di fatto rispettato e valorizzato, nella stessa misura in cui i paradigmi delle scienze si discostano dall’osservazione e dallo studio della natura per riversare la propria attenzione su un ambiente artificiale.

Ambientarsi dal punto di vista scientifico a questa latitudine del mondo culturale significa accettarne tutte le logiche ed i compromessi che introiettano come se fossero oggettivi i risultati delle proprie proiezioni.

Le impostazioni scientifiche che si basano sulla scelta di materiali differenti e sul loro assemblaggio secondo procedimenti che viaggiano in direzione diversa dalle logiche dominanti sono colte come eversive e nella maggior parte dei casi tenute sotto controllo in vario modo per evitare un confronto chiarificatore.

Nella scelta filosofica fra innatismo ed ambientalismo, ormai si creerebbe una certa confusione, dato che discernere gli elementi naturali da quelli artificiali dell’ambiente in cui viviamo e decidere quali siano veramente quelli naturali e quali siano invece quelli risultanti dall’impatto delle proiezioni umane richiederebbe un’analisi teoricamente distinta che forse non è più possibile se non a patto di ribaltare i canoni convenzionali della comunicazione.

Mi viene in mente l’immagine di un vulcano in fase di quiescenza, contornato da vastissime aree verdi incontaminate.
Ad un tratto il vulcano erompe e le sue emissioni creano delle colate laviche che sconvolgono completamente l’ambiente che vi è alla base e tutto attorno, poi passa del tempo e la lava si raffredda e si solidifica, trascorre altro tempo ed un nuovo ambiente completamente differente dal primo si viene organizzando.
Se il vulcano fosse una persona che osservasse attorno a sé, probabilmente riterrebbe l’ambiente come esterno e potrebbe correre il rischio di non capire che tutto ciò che sta osservando deriva dalla sua eruzione, dai materiali minerali che condizioneranno persino la crescita delle piante e la fauna che vi soggiornerà.

L’essere umano è in continua eruzione ed il suo ambiente naturale è inestricabilmente miscelato a quello artificiale che egli ha creato.
Tutto ciò comporta problemi nel distinguere fra obbiettività e soggettività.

All’inizio del terzo millennio, la cultura scientifica ed il suo artefice, l’uomo, mentre corrono, talvolta si volgono indietro per chiedersi se la strada imbroccata sia veramente quella giusta.
Il divario fra scienza ed incoscienza si fa sempre più sottile ed i parametri per decidere a volte troppo incerti.

Le sperimentazioni partono da elementi di osservazione che sono figli di scienze in cattività e non garantiscono la logica integrata, paralizzando l’osservazione ora in procedimenti induttivi, ora in procedimenti deduttivi all’ombra di sillogismi che elidono la conoscenza diretta delle cose attraverso l’esperienza.

Le competenze degli operatori scientifici sono troppo spesso considerate come roccaforti inespugnabili del tempio della scienza che impongono ai loro sudditi riti pagani o alimentano culti settari…inutilmente la coscienza tenta di inerpicarsi sulle rovine dei disastri del pianeta per scorgere nuove albe su nuovi orizzonti.

Il termine competenza si riferisce al significato latino “incontrarsi, accordarsi” e, in effetti, la cultura scientifica è giunta al bivio che prelude alla scelta fra il suo consolidamento e la sua rivoluzione.
Il problema è capire su quali principi consolidarsi e nel rispetto di quali regole, oppure di quale rivoluzione occuparsi, ma, per poter decidere, è necessario far capo a nuovi modi di pensare che consentano di osservare gli osservatori dall’esterno di quel dualismo uomo-ambiente del quale attualmente è molto difficile coglierne l’obbiettività.

E’ necessario comprendere che non basta sostituire “operatore ecologico” a “spazzino”, oppure “idraulico” a “tubista” per cambiare il metodo, le teorie e le conclusioni.
In fondo l’operatore ecologico è ancora una persona che scopa per le strade e sposta carichi di immondizia da un luogo all’altro, magari partecipando senza alcuna coscienza al flusso di rifiuti verso discariche abusive che sono quanto di più antiecologico possa esistere.
Così l’idraulico è pur sempre il tubista, quando va bene con la III media, mentre l’idraulica è un settore della fisica che necessita, per le sue applicazioni, di studi e competenze come minimo di tipo universitario.
La rivoluzione semantica e semiotica deve passare attraverso il ribaltamento delle chiavi d’accesso al mondo dell’esperienza.

Qualcuno avrebbe potuto dire, riferendosi ai potenti che deportavano ed utilizzavano selvaggiamente la schiavitù, che questi “curassero gli aspetti commerciali” della loro attività, ma la verità è che queste persone malvagie e prive di qualunque scrupolo sfruttavano penosamente dei loro simili ed erano sostenute in questo dalle logiche sociali dell’ambiente in cui si muovevano.

Soltanto quando qualcuno ha osato proporre delle logiche “eversive”, è stato possibile restituire alla libertà di vivere gli schiavi ed impedire che altri dovessero sottostare a tali atrocità.

L’ambiente quindi non è soltanto ciò che è esterno a noi ma comprende anche tutte le distorsioni che ha subito per opera nostra e per giunta l’ambiente non è assolutamente soltanto l’ambiente fisico, ma tutto ciò che pervade l’estraneità a noi ed è in fine quasi di esclusiva valenza culturale.

Esiste una grande cultura che può eventualmente comprendere oppure cancellare altre culture.

Il secolo più lungo dell’umanità sta fluendo nel secolo più corto; siamo prossimi alla parte ristretta dell’imbuto in cui confluiscono tutte le turbolenze storiche e culturali che hanno trasformato il mondo più che mai e ci chiediamo se “il vino” che stiamo travasando dal secondo al terzo millennio possa essere destinato alla nobiltà dell’invecchiamento oppure debba essere consumato subito perché altrimenti si trasformerebbe in aceto.

Anche l’uomo-medico sopporta il carico di responsabilità etica che i suoi atti professionali richiedono ed impongono.
La diagnosi e la terapia subiscono anch’esse il rimaneggiamento imposto dal turnover vorticoso dei contenuti dell’umanità.

La globalizzazione e la perdita della capacità di individualizzare i sentieri di diagnosi e terapia caratterizzano la pratica clinica corrente.
La pratica però, quale esercizio concreto di competenze, non può e non deve rispondere soltanto all’ordinamento culturale del gruppo dominante.
L’etica della scienza e della medicina prevede necessariamente meccanismi di autoaccertamento predisposti al continuo controllo di qualità delle metodologie.

Se pensiamo all’importanza del fattore umano nel rapporto uomo-ambiente, rifletteremo anche su quanto le implicazioni mediche sulla salute e sulla malattia dell’uomo possano essere forse l’argomento centrale dei paradigmi nelle scienze ambientali.
E’ tale la potenza dell’uomo di decidere e di trasformare, che probabilmente la cosa più importante è di garantirne la salute ed in termini globali, non soltanto perciò in termini di efficienza manuale ed operativa, ma soprattutto nel senso del discernimento, della lungimiranza, dell’equilibrio, in una sola parola della sua salute mentale.

In questo senso, la medicina non si è dimostrata capace di venire incontro alle reali profonde necessità dell’essere umano inteso come persona e nemmeno di garantirgli un’evoluzione sana sia come individuo che come collettività, di comprenderlo e significarlo come aspetto speculare dell’universo nella trascendenza del suo essere e di connotare l’antropizzazione dei frutti della salvaguardia di tutti questi aspetti.
Le terapie di conseguenza, come i procedimenti diagnostici, fanno rinvenire facilmente crudeltà, disprezzo della dignità umana e dell’integrità della persona, perdita della comprensione dell’uomo nella sua proiezione escatologica.
La medicina omeopatica, più di qualunque altra medicina olistica, è orientata all’uomo come percorso fra energia e materia, riconosce, individua, rispetta e pone nelle migliori possibilità di realizzazione gli aspetti più veri della persona e sicuramente ha le chiavi per accedere al progetto di espansione dell’uomo nella sua essenzialità per reintegrarlo all’armonia con il tutto e con sé stesso.

La medicina omeopatica è la medicina dell’uomo, il senso della vita, in contrapposizione alla medicina delle malattie che astraggono il discorso dell’esistenza della persona compresa nella sua peculiarità individuale.
Il medico deve avere la finalità suprema di reintegrare l’essere umano nella salute che, nell’individuo, è equilibrio e, nella specie, realizzazione dell’umano in un’ottica prospettata all’eternità e rispettosa dell’universo.

Il recupero dell’ambiente nella sua naturalità ed il ripristino dei rapporti con esso secondo logiche etiche non soltanto bilancia nuovamente il rapporto fra uomo ed antropizzazione, ripristinando l’equilibrio di un progresso intelligente e proiettato verso un vero futuro, ma ricolloca l’uomo al centro dell’intelligenza dell’universo e lo rende artefice responsabile di un futuro prevedibile ed armonioso, molto diverso da quello degli scorsi anni, soprattutto gli ultimi, in cui si sono concentrati i colpi di scena più nefasti che l’umanità abbia mai messo in opera e poi dovuto subire.

Soltanto la medicina omeopatica può accedere alle reali modalità patologiche dell’essere che sono la carenza, l’eccesso ed il disordine, che condizionano i comportamenti dell’uomo e le sue scelte anche nei confronti dell’ambiente e che in pratica rispecchiano anche le modalità in cui si manifestano le deviazioni dalla salute delle persone.

In conclusione salute e malattia dell’uomo corrispondono ad ambiente e pseudo-ambiente all’esterno dell’uomo, come dire che la naturalità della salute è dinamicamente legata all’equilibrio ambientale ed al rispetto dell’ecosistema.

La salute è l’integrazione fluida ed armoniosa del sé nel contesto rispondente ed orientato ad un comportamento comune che derivi da un’unica propensione al rispetto dell’autenticità e che tale scopo si prefigga in piena consapevolezza. Tutto ciò che si discosta da tale naturalità tesa fra progettualità ed essere crea malattia e, la malattia prende corpo non solo nella persona, ma anche attraverso un’immagine virtuale che rappresenta la comunità e condiziona le atmosfere attraverso le generazioni.

Un diniego del padre alla libera scelta di un figlio crea blocchi che alimentano malattie per migliaia di anni. Un nodo sciolto dalla comprensione e dal perdono riscontrato cui corrisponde gratitudine restituisce il grado di libertà che lascia il sistema della vita libero di organizzarsi in modo sempre più grande, nobile, buono e saporito di futuro.

Le storie singole di malattia non esistono fini a sé stesse ma come riflesso di una malattia macrocosmica indotta ed alimentata dalle bugie del microcosmo.
Le impostazioni scientifiche che si basano sulla scelta di materiali differenti e sul loro assemblaggio secondo procedimenti che viaggiano in direzione diversa dalle logiche dominanti sono colte come eversive e nella maggior parte dei casi tenute sotto controllo in vario modo per evitare la possibilità di un confronto chiarificatore.

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Ricordo una donna che si rivolse a me nella speranza che io potessi aiutarla a guarire dal cancro della mammella che la devastava. Nel corso di una visita, mi portò per mano attraverso il paesaggio incantato delle sue emozioni, ma non quelle che provava da quando era ammalata, non quelle. Mi condusse fra le sue emozioni antiche e mi fece capire come era arrivata al cancro. Mi voleva bene e mi chiamò fino all’ultimo prima di morire, per telefono, per dirmi che mi voleva bene.

E’ strano. Una paziente che muore di tumore della mammella e decide di raccontare tutto al suo medico, scelto quale testimone. E’ proprio vero che il tumore è il più grave incidente dell’anima. Ma perché il tumore ha ragione di esistere? Perché la persona ha bisogno del tumore per compiere la tappa estrema di un cammino esoterico che la completi e le faccia dire.”Il tumore è la cosa più giusta che poteva accadermi”. Perché è questo che mi hanno detto diversi pazienti, mentre mi raccontavano come erano arrivati alla neoplasia.

Qual’è il reale mistero del tumore maligno. Rifletto sul termine adoperato per chiamare questa dimensione della vita che ormai attanaglia il mondo. Non si aveva proprio parola migliore per definirla…tumore (gonfiore), oppure cancro (granchio, come se avesse delle chele con cui infliggere pene).

E’ normale che una società che non é stata capace di chiamare in modo migliore questa “cosa” non abbia nemmeno i mezzi per uscirne fuori.

E se non dovessimo uscire fuori dal cancro, ma dovessimo invece entrarvi e morirci dentro per salvarci dalla morte? Che cosa rappresenta ammalarsi di cancro, che cosa è davvero questa forza che rimette in gioco tutto e decide che cosa ne sarà della nostra vita da quel momento in poi e persino dopo la morte? Si. Perché la morte e lo stile con cui la nostra esistenza si conclude firmano tutta la storia della nostra vita e ne fanno un quadro d’autore.

Forse occorre immergersi nella merda per capire quanto può essere profumataaa la vita!

Insomma le cellule cancerose non comunicano più con le cellule normali, non si capiscono più con esse. Un caos di vitalità estrema che non soggiace al principio dello sviluppo sostenibile. Ma non è, forse, tutto il mondo in questa condizione?
Una vitalità estrema che non serve più alla vita, ma ne alimenta espressioni sempre più mortali. Una vitalità eccessiva, esuberante, afinalistica…in pratica la morte. Una corsa a trecento chilometri orari con botto finale. Quanta energia per morire! Magari dopo una serata brava ed un paio di Red Bull.

Dovremmo capire che il cancro è la cosa più giusta per il mondo, come lo era per i pazienti che mi hanno raccontato la loro storia cancrogena.
Ancora una volta un aspetto della teoria frattalica che si applica anche all’evoluzione del cancro nel pianeta. Il piccolo nel grande ed il grande nel piccolo.

Ecco perché la scoperta per “sconfiggere il cancro”, sebbene annunciata da decenni, non arriva mai. Perché non è il cancro che dobbiamo sconfiggere, ma noi stessi! O meglio la negazione di noi stessi. E’ sbagliato prendersela con un obiettivo sbagliato. Occorre entrare nel concetto di “cancro” per sopravvivervi. Se ci riempiamo di merda attorno, dobbiamo per forza attraversarla per uscirne. Il cancro vuole farci capire qualcosa.
Peccato che forse non sarà chiaro per tutti quello che sto dicendo, ma è proprio questo il problema.

Ecco perché il cancro è definito a ragione dal Dr. Hamer come un programma biologico speciale e sensato che insorge essenzialmente per gravi problemi di comunicazione fra le persone. Hamer non si esprime proprio così, ma così mi pare di capire che vanno le cose, dopo aver letto ed apprezzato molto i suoi studi.
Il mondo manca di comunicazione, mentre i telefonini imperversano! Di quale comunicazione ha bisogno il mondo?

Qualcosa di impalpabile ci fa ammalare di cancro e qualcosa di impalpabile può farci guarire. Abbiamo bisogno di sottili energie per stare bene. Ma il mondo è schizofrenico, poiché una parte della sua anima non riconosce più i piani sottili della sua esistenza. Siamo assurdi! Ogni giorno usiamo il cellulare, il navigatore satellitare, azioniamo il cancello automatico col nostro telecomando e così anche la televisione e tutto il resto, poi ci meravigliamo dell’omeopatia e di tutto il mondo che essa propone come se si trattasse di qualcosa di tanto diverso.

Usiamo l’invisibile senza nemmeno capire come funziona e poi ci uccidiamo con l’analgesico che, assieme a tutte le altre medicine in cui ci immergiamo continuamente, rappresenta quanto di più materialistico e grossolano possa esistere!
E’ la grande contraddizione in cui il pianeta è caduto che lo fa ammalare sempre di più, anche di cancro.

Occorre cuore ed immaginazione, e non solo quella che aridamente viene proposta come l’ineluttabile scienza.

Cuore ed immaginazione sono due parole chiave dell’era moderna, in quanto sono sempre più implicate nella genesi profonda di tutto il benessere e di tutto il malessere di cui siamo capaci. L’aspetto curioso è che le parole cuore e immaginazione sono sempre più utilizzate, ma è vero anche che vi sono intere enormi masse di persone che subiscono trattamenti strumentalizzanti atti a renderle sempre più prive di cuore ed immaginazione. E’ come se questi tesori dell’umanità fossero utilizzati a piacimento di alcuni solo per promuovere meccanismi che impoveriscono sempre di più il singolo delle proprie capacità di amare e sognare.

Una società senza amore e senza sogno è già morta e pone al mondo bimbi morti già prima di vivere. Vi sembra strano? Allora fate silenzio e capirete. Già. Il silenzio, quello che non sappiamo fare più…parliamo, parliamo e non capiamo nulla.

Le persone con minor cultura sono quelle che parlano di più e si impegnano di più a forzare le coscienze per piegarle all’asservimento al sistema che ci vuole stupidi e cattivi. La chiamano furbizia! Uno dei falsi valori più spronati nel contesto che dovrebbe invece spingerci all’acquisizione delle alte sfere. Persino il modo in cui si insegna nelle scuole è quasi sempre banale e riduttivo per quello che è la totipotenza di una persona che sta crescendo, che sta “andando a scuola”.

Mi accorgo che sono pochi i professori che fanno capire che non si studia per il voto dell’interrogazione, che non si studia tanto per fare qualcosa. Si studia per vivere di una delle più belle opportunità che la vita ci offre, quella di confrontarci con il lavoro di altre persone che ci hanno preceduto nel lavoro meraviglioso di crescita dell’umanità, di scoperta della magia dell’universo e delle sue regole.

La prima cosa che un insegnante deve fare è riuscire ad affascinare lo studente, a fargli sentire che lo studio non è una costrizione dalla quale cercare di scappare, ma è uno strumento di crescita sensazionale ed una dimensione in cui addestrarsi ad esercitare la propria libertà.

Se soltanto gli insegnanti non dimenticassero mai che cosa il mondo si aspetta da loro, sarebbero tutti automaticamente nelle migliori condizioni di insegnare!

In questi ultimi giorni di scuola ho sentito tanti bravi studenti essere annoiati e non vedere l’ora della fine dei corsi. Raccontavano che i professori ormai stremati li facevano pascolare nelle classi senza dire loro nulla, come se non vi fosse più nulla da fare.

Peccato dover constatare che la scuola non è proprio in grado di affascinare né i ragazzi né gli insegnanti. Ci si rinchiude in una scatola in cui non si aprono le ali per una delle attività centrali della scuola: la comunicazione.

Io ho avuto la fortuna di avere un insegnante che non dimenticherò mai, il prof. Domenico Giorgio, raccontava la sua vita, quella degli autori, ci faceva raccontare la nostra e si cresceva in cultura e sensibilità sotto le ali di una scuola viva e vivificata dalla luce di quest’uomo meraviglioso.

Un’altra figura che ricordo è quella del prof. Gaetano Castelli che mi ha condotto attraverso il fare e la conoscenza dei materiali e delle procedure con lo stile che lo contraddistingueva, quello del padre amorevole e zelante.

La prof.ssa Rosa Difonzo mi ha insegnato a guardare negli occhi le persone e la prof.ssa Caterina Costanza mi ha insegnato ad occuparmi di tutto quello che anche solo potevo immaginare.

Che fortuna che ho avuto ad essere allievo di queste a di altre figure importanti che facevano in modo che io non mi annoiassi nel luogo che essi resero il più bello del mondo: la mia scuola.

Il cancro esprime nella persona ciò che la mancanza di comunicazione esprime nel mondo.

La ricetta per il futuro dell’umanità è: meno paura, più speranza; meno farmaci, più fiducia nelle proprie forze; meno check-up, più consapevolezza; meno medici, più filosofi; meno religione, più spiritualità; meno promesse, più spontaneità; meno regole, più onestà; meno matrimoni, più amore; meno ruoli, più collaborazione; meno insegnanti, più Maestri; meno scienza, più immaginazione; meno invidia, più intraprendenza; meno schemi, più libertà; meno chemioterapia, più energia; meno dottrine, più cultura; meno sesso, più comunicazione; meno rapporti, più sesso; meno malattia, più vita; meno chiacchiere, più silenzio; meno posizioni, più scambio; meno nazioni, più mondi; meno chirurgia, più conoscenza; meno teorie, più sogni; meno piacere, più pienezza; meno fretta, più tempo; meno responsabilità, più condivisione; meno lezioni di recupero, più poesia nell’insegnamento; meno studio, più passione; meno leggi, più giustizia; meno fotografie, più ricordi; meno di tutto, più di nulla.

Sono sempre stato diverso, ho sempre capito che non avrei potuto amalgamarmi con il resto del mondo, eppure ho sempre nutrito un grande amore per gli altri.

Al cimitero, qualche settimana fa, lessi la frase su di una lapide di una giovane donna che mi guardava dalla foto con due occhi meravigliosi:”Chiunque tu sia, ti amo”.
Quanto avrei voluto conoscerla, in vita! Persino la sua fotografia sulla lapide irradiava calore tramite i suoi occhi neri e profondi.
La tristezza mi pervade. Occorrerebbe andare avanti con gli studi, le ricerche, ma di un tipo diverso da quelle soltanto oncologiche. Portare la vita verso il cancro, verso le malattie.
Ci siamo abituati a curare il cancro con segnali di morte, chemioterapie e forze distruttive di vario genere e non pensiamo quanto questa morte che portiamo nelle persone sia ben più grave della morte stessa che il cancro rappresenterebbe.

Mi è sempre piaciuto guardare negli occhi le persone. Ma ricordo un momento particolare della mia vita in cui la mia professoressa di matematica e scienze, Rosa Difonzo, mi insegnò l’importanza di guardare le persone negli occhi senza abbassare lo sguardo. Ricordo l’energia di questa donna ed il suo fascino, i suoi occhi spiritati e caldi nello stesso tempo, il suo mento acuminato che spiegava la sua intelligenza.
Forse lei non immaginerà mai che io la ricordo così bene a distanza di più di trent’anni.
Mi rendo conto dell’importanza dei suoi insegnamenti e la sento vicina come se fossimo in aula quando io avevo undici anni.

Un’altra mia caratteristica è sempre stata, ma si rende più evidente con il passare degli anni, quella di non riconoscere la temporalità degli eventi: tutto è nei miei ricordi così vivido che in pratica è presente ed esiste dentro di me senza tempo.
La nostalgia mi ha sempre offerto le sue braccia per cullarmi, mentre io con gli occhi al cielo, ritorno al passato con un senso di tepore uguale al meriggio primaverile di uno dei momenti più magici della mia fanciullezza.
Nel pomeriggio, cercavo angoli tiepidi della casa o dei campi per appartarmi e scivolare in uno stato sognante in cui la mia immaginazione mi suggeriva dimensioni meravigliose e progetti di costruzioni favolose.

Quando fermo il mio pensiero, vedo un cielo azzurro, senza nemmeno una nuvola e poi emergono dolcemente dettagli vividi di invenzioni, pezzi meccanici, procedimenti costruttivi. E’ come se in questo modo di evasione io ritrovassi le fila per rientrare nella materia in modo originale e forgiarla in modo geniale.
Ho sempre capito che tale mia caratteristica era molto importante ed utile per il mondo, ma ho sempre subito il rallentamento dell’ambiente e delle persone che mi impedivano di astrarmi e di volare in quel modo.
La scuola in particolare e gli studi cercavano di rallentarmi e mi sentivo come un missile che lambisce in velocità un mondo che non gli appartiene. Si sente lo stridore delle ali che toccano il suolo e questo senso di leggerezza disturbata dall’attrito con la vita.

Forse è una malattia, ma non penso. Penso invece che sia l’unico modo di esistere che ho a disposizione per non vivere invano.

Una volta conobbi Riccardo, di origine boliviana, una specie di tristezza negli occhi che lo rende misterioso. E’ come riconoscere il fascino delle atmosfere andine nei riflessi remoti del suo sguardo. La vita è strana: io e lui ci siamo incontrati molti anni fa quando io lavoravo in pronto soccorso a Santeramo. Lui era un musicista e mi regalò una compilation di pezzi musicali che ascoltavo con grande piacere.

L’ho reincontrato anni dopo per circostanze molto particolari legate alle mie ricerche scientifiche.

Una mattina egli ha attirato la mia attenzione e mi ha detto di seguirlo perché voleva mostrarmi una cosa. Ha aperto una gabbia dove erano ospitati due cani bianchi e mi ha detto:” guarda la libertà”. I cani sono schizzati fuori lanciandosi in corsa sul prato verde. Era bellissimo. Non ho mai ricevuto un regalo così bello. Grazie Ricccardo! Piango e ricordo ancora la corsa di quei due cani che quasi si smaterializzarono mentre cercavo di seguirli con gli occhi. Essi non correvano, volavano, erano librati nell’aria.

La vita tenta di resistere alla malattia con i sistemi più romantici solo in un contesto di amore. Diversamente si accascia, si deforma e si lascia andare verso la fine.
Non può arrivare la morte finchè vi è autocoscienza.

Il vento accarezza il mio volto stanco, tirato e sconfitto dalla pochezza del mondo e persino da quella di chi credevo mi fosse davvero vicino. Grazie vento, che ti prendi cura di me!
Mi chiedo sempre più spesso che senso aveva che io nascessi così se non potevo vivere per quello che ero destinato ad essere. La mia corsa intellettuale sul prato verde è stata impossibile fino a questo momento. La mia vita non ha senso se non aiuto gli altri a coglierne il senso profondo. La mia missione è spendermi. So che vi sono molte altre persone come me, sarebbe bello lavorare insieme in silenzio.

6 COMMENTI

  1. Cara Tina, grazie!
    Il medico è una persona molto fortunata, poichè gli è offerta la possibilità di fare del bene come “lavoro”.
    Forse è il medico che dovrebbe ringraziare i suoi pazienti.

  2. “Qualcosa di impalpabile….”
    La risposta dobbiamo cercarla dentro di noi, ed è proprio li’ che possiamo trovare la forza guaritrice della natura.
    Caro Totò, su quel prato verde stai già correndo e noi lo possiamo testimoniare.
    Ti abbraccio forte forte
    Carolina

  3. Una delle più belle, autentiche, sincere relazioni che i miei occhi abbiano mai letto. Noi siamo l’ambiente e l’ambiente siamo noi. L’immagine del vulcano, delle vele spiegate al vento della vita, degli occhi che incontrano con sincerità altri occhi, della infinita potenza del cuore e dell’immaginazione. Tutti devono sapere, tutti.

  4. Leggo e non riesco a trattenere le lacrime…
    Anche a distanza riesci a farci volare. Siamo così immersi nell’inutile parossismo quotidiano della vita che basta leggere le tue parole per riportarci in equilibrio cosmico riappropriandoci della nostra vera essenza. Sembra ieri di averti conosciuto ma son passati buoni buoni 10 anni e la nostra vita l’hai piacevolmente stravolta. Ascoltarti è il nostro primo rimedio omeopatico e tante volte ho desiderato che nelle mie vene scorrese anche il tuo sangue per riuscire insieme a distaccarci dalla materialità e volare, sempre insieme, attraverso gli occhi della mia incoscienza !!

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